- I siriani sono diventati l’unico argomento di discussione di questa seconda fase della campagna elettorale. Entrambi i candidati promettono di rimandarli in patria, anche se difficilmente potranno tener fede alle loro promesse.
- La comunità siriana intanto subisce giornalmente discriminazioni e aggressioni. A Gaziantep ci si prepara a trascorrere i prossimi giorni in casa per evitare potenziali situazioni di conflitto.
- La vittoria dell’uno o dell’altro candidato non fa differenza per i siriani. Per loro non c’è posto in Turchia, ma tra confini europei invalicabili e la mancanza di sicurezza in Siria l’unica scelta possibile è restare nel paese anatolico.
In una Turchia che si prepara al secondo turno delle elezioni presidenziali l’unico argomento di discussione sono diventati i rifugiati siriani. Sia Kemal Kilicdaroglu, esponente dell’opposizione, che il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan hanno incentrato i loro discorsi sulla questione dei rifugiati siriani e in generale dei migranti arrivati in Turchia negli ultimi anni e percepiti come un problema dalla generalità della popolazione.
A polarizzare il dibattito pubblico nelle ultime due settimane, però, è stato per lo più Kilicdaroglu. L’esponente del Tavolo dei sei, formazione che raggruppa diversi partiti che vanno dal centro-sinistra alla destra conservatrice, ha abbandonato i toni conciliatori e inclusivi del primo turno per puntare su una retorica più nazionalista nel tentativo di sottrarre voti al suo sfidante.
Questo cambio di passo è visibile anche nei cartelloni comparsi recentemente per le strade di Istanbul e in cui un Kilicdaroglu dallo sguardo accigliato ribadisce la promessa di mandare a casa i siriani presenti in Turchia nel più breve tempo possibile. Per sapere se il messaggio xenofobo dell’opposizione ha davvero fatto preso sull’elettorato bisognerà attendere i risultati delle urne, ma gli effetti di questa retorica sono già ben visibili nella comunità siriana.
Capro espiatorio
«Entrambi i candidati ci stanno usando come pedina elettorale e come capro espiatorio per giustificare la crisi economica. Ci accusano persino di essere dei terroristi», afferma Mustafa Alokoud, presidente della Ong Hope Revival con sede a Gaziantep, città di confine con la Siria in cui risiedono più di 400mila siriani. «Con questi discorsi non fanno altro che aumentare la tensione e l’odio verso la nostra comunità. Kilicdaroglu continua anche a dire che in Turchia ci sono 10 milioni di migranti, ma non è vero e sa bene che non è così». Secondo i dati del ministero dell’Interno, i siriani presenti nel paese sono circa 4,5 milioni, ma anche aggiungendo a questo numero le persone provenienti da altri paesi dell’Asia e dall’Africa non è possibile raggiungere la cifra indicata da Kilicdaroglu.
«L’opposizione sostiene i diritti delle donne e della comunità Lgbt, ma non ha alcun rispetto per noi siriani. Kilicdaroglu vuole anche riavvicinare all’Unione europea, ma come pensa di farlo se poi non rispetta i diritti umani?», si chiede Alokoud con un misto di incredulità e rassegnazione. Il problema però non è rappresentato solo dall’opposizione.
Il governo in carica non ha saputo implementare dei programmi di integrazione per la popolazione siriana adeguati e ha ugualmente diffuso informazioni false sulla gestione dei fondi dedicati all’accoglienza. «Quasi tutti qui credono che il governo usi soldi pubblici per assistere i siriani, ma i fondi in realtà provengono dall’Ue. Questa narrazione danneggia i nostri rapporti con la popolazione locale e porta a un aumento della violenza», specifica Alokoud.
La violenza
A Gaziantep i casi di aggressione sia verbale che fisica verso i siriani sono ormai all’ordine del giorno. «Circa tre mesi fa sono stata aggredita mentre parcheggiavo sotto casa», racconta Kinda Hounari, ancora scossa dalla violenza subita. La donna, madre di tre figli, è arrivata in Turchia nel 2014 dopo aver abbandonato Damasco. «Un uomo ha iniziato a urlarmi contro, dicendo che dovevo tornare nel mio paese. Ha colpito ripetutamente il cofano della macchina e poi il mio finestrino finché non lo ha rotto. Non sapevo che fare. So di tanti altri siriani aggrediti nello stesso modo, ma andare dalla polizia è inutile». Dalla voce di Hounari traspare ancora l’agitazione del momento e la paura provata di fronte a un’aggressione ingiustificata, ma che non ha più nulla di eccezionale.
Secondo Hounari la situazione peggiorerà ulteriormente a ridosso delle elezioni e in molti si stanno organizzando per trascorrere i prossimi tre giorni chiusi in casa, riducendo così al minimo i contatti con la popolazione locale. Ma a preoccupare è ancora di più il post-elezioni. Sia Kilicdaroglu che Erdogan hanno promesso di riportare i siriani nel loro paese, ma sarà impossibile farlo nel breve-medio periodo.
La Turchia non ha ancora ricucito i rapporti con il governo di Damasco e le aree sotto il controllo più o meno diretto di Ankara nel nord non sono sicure e mancano delle condizioni minime per garantire una vita dignitosa ai suoi abitanti attuali e futuri. L’unico modo per tener fede alle promesse fatte è riportare indietro i siriani con la forza, come già accade. Negli ultimi anni sono moltiplicati i casi di persone arrestate, private del diritto a ricorrere a un avvocato e costrette a firmare dei documenti scritti unicamente in turco in cui affermano di voler fare volontariamente ritorno in Siria.
Il futuro dei siriani in Turchia dunque è sempre più incerto, ma questa condizione di precarietà e la minaccia della deportazione agitano soprattutto i bambini e gli adolescenti. Per molti di loro la Siria è un paese che esiste solo nei racconti dei genitori e di cui conoscono a stento la lingua, mentre identificano nella Turchia la loro vera casa, nonostante la discriminazione a cui sono sottoposti giornalmente dai loro stessi coetanei.
Nemmeno chi è riuscito ad ottenere la cittadinanza si sente al sicuro e ben pochi hanno avuto il coraggio di andare a votare per paura di possibili ripercussioni. «Se ci vedessero ai seggi penserebbero che siamo lì per votare Erdogan e anche se invece sostenissimo Kilicdaroglu nessuno ci crederebbe», spiega Hounari. La vittoria dell’uno o dell’altro candidato d’altronde fa ben poca differenza per i siriani. «Il leader dell’opposizione vuole deportarci subito e usa un linguaggio particolarmente ostile, mentre Erdogan dice di avere un piano e ha adottato una retorica meno aggressiva. Il risultato però sarà lo stesso», sintetizza Hounari, scuotendo la testa. Dagli uffici della Hope Revival intanto arrivano pezzi di conversazione in arabo, una lingua che in Turchia è bene non usare nei luoghi pubblici. «Non c’è posto per noi qui, ma non sappiamo dove altro andare».
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