In questi giorni internet è un proliferare di immagini della Ever Given, la nave incagliata nel canale di Suez al costo di miliardi di dollari al giorno per l’economia globale. Non mancano a corredo, ovviamente, meme e ironie. Ma soprattutto commenti sbalorditi di chi, non vedendo (comprensibilmente) spesso fotografie di cargo, si chiede come sia possibile essere giunti al punto in cui le grandi navi sono…così grandi.

La Ever Given è quella che in gergo si dice una mega-nave: quattrocento metri di lunghezza per 220.000mila tonnellate di peso a pieno carico. In pratica l’equivalente di quattro campi da calcio e circa cinquemila camion. E non è neppure la più grande nave container al mondo. In termini di capienza esistono ben dodici modelli ancora superiori. Con tutti i rischi e gli inconvenienti che questo comporta. Come stiamo scoprendo in questi giorni e come scopriamo – soltanto tra meno clamore – ogni volta che uno di questi colossi ha un qualche problema in mare. Ma come siamo arrivati a questo punto? Come siamo passati dai 58 container trasportati dalla prima porta-container della storia (la Ideal X del 1956) alle decine di migliaia di oggi? Come siamo arrivati a costruire dei simili leviatani?

È una lunga e complessa vicenda, resa attuale dal fatto che alcune delle sue scene madri si svolgono proprio intorno al teatro degli eventi di questi giorni: il canale di Suez.

Per raccontarla dobbiamo tornare a un tempo – la fine degli anni Sessanta – in cui le porta-container sono ancora mosche bianche. Non esistono ancora standard precisi per le “scatole” che trasportano e neppure un chiaro modello di business o finanziamento dei cargo. E tuttavia alcuni imprenditori dei trasporti, principalmente americani, si buttano nell’affare. Per rendere appetibile il container puntano sulla rapidità che ne contraddistingue le operazioni di carico e scarico ma anche su navi estremamente veloci e dunque ad alti consumi. Del resto il periodo lo consente: il prezzo del petrolio, all’epoca, è una frazione di quello che sarebbe diventato in seguito.

Non solo – ed eccoci a Suez – quando ormai appare chiaro che la Guerra dei sei giorni è persa, nel giugno 1967, il presidente egiziano Nasser impone il blocco del canale, inaugurato nel 1869 e da allora principale valvola tra Mediterraneo e oceano Indiano. La decisione è presa con tale rapidità che quindici scafi civili restano bloccati all’interno del Grande lago amaro. Passeranno alla storia con il nome di “flotta gialla”, dal colore della sabbia del Sinai che lentamente li ricopre.

Da un giorno all’altro – come in questo momento – raddoppiano le miglia nautiche tra Asia ed Europa. Cambia completamente l’economia dei trasporti tra le due relative masse oceaniche: l’Indiano e l’Atlantico. Per le prime porta-container, navi veloci e snelle, è una pacchia. Si mangiano la circumnavigazione dell’Africa molto meglio della concorrenza.

Assorbito rapidamente il contraccolpo della chiusura di Suez, a fine anni Sessanta l’economia riprende a viaggiare – l’ultimo brindisi dei vari miracoli, boom, trente gloriouses e Wirtschaftswunder – il commercio globale si prevede in crescita e il petrolio costa niente. E quindi di pari passo aumenta la fiducia nel container e nel suo modello di “navi e consegne rapide”. Si sbloccano enormi investimenti nel settore – l’equivalente di 60 miliardi attuali tra 1967 e 1972 – mentre, tra 1970 e 1973, le tonnellate di merci “containerizzate” quasi raddoppiano. Nello stesso periodo entrano in attività oltre quattrocento nuovi cargo da container. Nulla sembra poter andare storto. Tanto più che studi della Banca mondiale, nel 1972 parlano di un nuovo “miracolo economico” alle porte, con prodigiosi effetti sul volume dei trasporti globali.

La crisi

Se avete familiarità con la storia economica del Novecento sapete che non va esattamente così. Nel 1973 non inizia un nuovo miracolo economico. Tutt’altro. La coda lunga delle scosse geopolitiche della Guerra dei sei giorni produce un nuovo conflitto tra una coalizione araba e Israele – la guerra dello Yom Kippur – che si combatte proprio sulle sponde del canale ancora chiuso. Conflitto di nuovo breve – tre settimane di ottobre – ma dalle conseguenze vastissime. Come ritorsione all’appoggio esterno fornito a Israele dal blocco occidentale, i membri arabi dell’Opec annunciano infatti un embargo delle esportazioni di petrolio. Da un giorno all’altro le nazioni più avanzate del pianeta devono razionare i propri consumi – ecco le prime “domeniche a piedi” – mentre i distributori di benzina espongono cartelli “tutto esaurito”. In un discorso alla nazione Nixon paragona la situazione a una guerra. Il prezzo globale del greggio passa da tre a dodici dollari al barile, con effetti sul sistema monetario e finanziario globale che non abbiamo forse ancora finito del tutto di comprendere. Inizia la crisi energetica degli anni Settanta. È la scossa decisiva di un tremito recessivo iniziato in realtà ben prima (le inflazioni anglosassoni degli anni Sessanta) e destinato a far crollare, in meno di due decenni, il modello socio-economico (occidentale) del dopoguerra.

I più rapidi a venire giù, pressoché immediatamente, sono proprio i pionieri del container. Di colpo si trovano con navi fuori da ogni logica economica dal periodo. Con modelli di business pensati per un’epoca in cui la benzina costava un quarto e l’economia era data per galoppante. Ora faticano a riempire navi che perdono soldi se stanno ferme e perdono comunque soldi quando si muovono. Ad aggiungere beffa al danno: nel 1975, dopo otto anni, riapre Suez e dunque la velocità dei cargo non è più neppure un fattore competitivo. I grandi giornali economici – dall’Economist al Wall Street Journal – scrivono l’epitaffio del container: una bella idea morta giovane. In realtà il container non solo non è morto ma ancora, in un certo senso, deve nascere. E di fatto nasce – o rinasce – proprio dalle ceneri di quel falò di miliardi e di pagherò di metà anni Settanta. E lo fa su presupposti completamente nuovi. Non più offrendo velocità, competitività ed efficienza estrema ma scala. Intesa come “economia di scala”: ovvero la capacità di abbattere i costi unitari di trasporto grazie all’aumento del numero di unità (di container) trasportati da ogni nave.

Ingrandire ancora

Gli armatori sopravvissuti al tracollo capiscono che il futuro è unirsi in conglomerati per radunare le risorse finanziare necessarie all’acquisto o alla costruzione di navi sempre più enormi. Che, a differenza delle “piccole navi veloci” pre-crisi, non viaggiano più a mille all’ora su brevi tratte e fermandosi ad ogni porto. Si muovono invece lentamente e ostinatamente, molto sotto la loro velocità massima – lo si chiama slow steaming – lungo interminabile tratte trans-oceaniche.

Ricevono commesse ai quattro angoli del mondo e poi le accorpano, tramite complessi snodi logistici tra terra e marre, in pochi hub, che diventano col tempo sempre più grandi fino a trasformarsi nei mega-porti contemporanei. Il container impara così dalle vicende di Suez che il “go big” (e “go slow”) è la risposta a ogni problema. E in effetti pro tempore funziona ogni volta. Quando, nel 2009, il numero di container movimentati nel mondo crolla di un quarto e il più grande armatore in attività, la danese Maerks, perde due miliardi di dollari in pochi mesi, la risposta dell’industria è di nuovo quella di ingrandire le navi per ottenere economie di scala ancora maggiori. Per un po’ il meccanismo.

Dopodiché, come ogni volta, la corsa alle dimensioni non giunge nuovamente a produrre un eccesso di offerta che va controbilanciato da un ulteriore aumento dell’efficienza di scala per abbattere i costi. La più recente di queste iterazioni – in risposta anche al cambiamento del ruolo dell’economia cinese nelle filiere globali – si è svolta proprio tra la fine dello scorso e l’inizio di questo decennio. È la generazione di cui fa parte proprio la Ever Given (entrata in servizio nel 2018) ed è una dinamica che al momento non ha altri limiti se non quelli fisici imposti dalle dimensioni – larghezza e pescaggio – delle infrastrutture con cui queste navi devono interagire. Come i porti e appunto i canali di Panama e Suez. Ma ormai si tratta di un “gioco” di pochi metri (millimetri in proporzione a queste). Un gioco che, come stiamo vedendo, non lascia letteralmente molti margini di manovra.

 

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