- Il 23 marzo 2019 il cosiddetto Stato islamico ha perso la cittadina di Baghuz, ultima roccaforte dell’organizzazione jihadista in Siria e Iraq. Dopo cinque anni, si chiudeva quindi l’esperienza territoriale del “Califfato”.
- L’organizzazione jihadista è stata in grado di attirare decine di migliaia di simpatizzanti da tutto il mondo. Tra i circa 40mila volontari accorsi nel Levante, oltre 5mila sono arrivati dall’Europa, con differenze significative da un paese all’altro.
- Con il collasso del “Califfato” il flusso di europei in uscita verso la Siria e l’Iraq si è sostanzialmente esaurito. Rimane tuttavia il problema del flusso in direzione opposta.
Il 23 marzo 2019 il cosiddetto Stato islamico ha perso la cittadina di Baghuz, ultima roccaforte dell’organizzazione jihadista in Siria e Iraq. Dopo cinque anni, si chiudeva quindi l’esperienza territoriale del “Califfato”. L’organizzazione jihadista è stata in grado di attirare decine di migliaia di simpatizzanti da tutto il mondo. Secondo le stime disponibili, oltre 40mila persone (principalmente maschi adulti, ma anche donne e bambini) hanno lasciato il proprio paese per unirsi allo Stato Islamico o, in subordine, ad altri gruppi armati jihadisti attivi nel Levante. Non è stata la prima ondata di foreign fighter jihadisti: già Osama bin Laden e i suoi compagni avevano abbandonato le proprie case per andare a combattere in Afghanistan dopo l’invasione sovietica del paese nel 1979. Nondimeno, questa ultima ondata non ha precedenti per ampiezza e influenza.
Tra i circa 40mila volontari accorsi nel Levante, oltre 5mila sono arrivati dall’Europa, con differenze significative da un paese all’altro. Secondo le stime disponibili, circa l’80 per cento dei foreign fighter europei proveniva soltanto da quattro stati: Francia (circa 1.900 individui), Germania (più di 1.000), Regno Unito (oltre 900) e Belgio (più di 500). Al confronto il contingente di volontari legati all’Italia appare di dimensioni modeste, con 146 foreign fighter jihadisti inclusi nella lista ufficiale stilata dal ministero dell’Interno; la gran parte di loro, oltretutto, non aveva passaporto italiano.
Con il collasso del “Califfato” il flusso di europei in uscita verso la Siria e l’Iraq si è sostanzialmente esaurito. Rimane tuttavia il problema del flusso in direzione opposta. In effetti, nonostante un calo generale nell’attenzione dell’opinione pubblica, tanto più in tempi di pandemia, la questione dei foreign fighter nel Levante non è affatto venuto meno. Migliaia di uomini, donne e bambini sono ancora detenuti in Siria e in Iraq, in condizioni precarie e incerte. Gestire queste persone rappresenta una sfida assai impegnativa, anche per l’Europa. Secondo stime proposte di recente da studiosi dell’Egmont Institute di Bruxelles, circa 1.000-1.100 foreign fighter con passaporto europeo sono ancora bloccati in Siria, mentre soltanto poche decine si trovano in Iraq. In Siria, i maschi adulti uomini sono detenuti in prigioni di fortuna, mentre le donne e i bambini sono ammassati in campi di accoglienza.
Profili diversi
Questa sorte instabile accomuna persone che hanno in realtà profili, motivazioni e responsabilità molto diversi: se da un lato vi sono certamente adulti che aderiscono ancora alla causa estremistica dello jihadismo, dall’altro, non mancano adulti che hanno abbandonato tale causa, così come bambini che chiaramente non mai hanno mai assunto alcuna decisione a riguardo perché sono stati portati da genitori o conoscenti provenienti dall’Europa o perché sono addirittura nati direttamente nella regione.
Finora, i governi degli stati europei, pur adottato politiche nazionali diverse, hanno generalmente condiviso una marcata riluttanza a rimpatriare i propri cittadini, e specialmente i maschi adulti, nonostante le richieste espresse più volte dagli Stati Uniti, soprattutto dopo l’offensiva militare lanciata dalla Turchia nel nord della Siria nell’ottobre del 2019. Tra le pochissime eccezioni a tale atteggiamento di inerzia si segnala, fuori dai confini dell’Unione europea, l’impegno del Kosovo, fortemente sostenuto da Washington.
Possiamo distinguere quattro ragioni principali di questa avversione ai rimpatri da parte dei paesi europei: questioni giuridiche, rischi politici interni, costi economici e, soprattutto, preoccupazioni in materia di sicurezza. Da un punto di vista legale, perseguire i rimpatriati jihadisti nel paese di origine può essere impegnativo. In breve, non tutti i paesi europei dispongono di strumenti giuridici adeguati per gestire con successo procedimenti penali a carico di questi soggetti: per esempio, a differenza di quanto sia previsto in Italia, in alcuni paesi europei la partecipazione a gruppi armati all’estero non è un reato in sé. Occorrerebbe quindi raccogliere prove rilevanti in teatri interessati da conflitti all’estero, con tutte le difficoltà del caso.
I rischi politici non sono meno rilevanti. In diversi paesi europei, l’idea di riportare in patria persone potenzialmente pericolose (in particolare, maschi adulti), non gode di grande popolarità. I governi in carica o almeno alcuni partiti di maggioranza preferiscono evitare potenziali responsabilità. Probabilmente il caso più eloquente a questo riguardo è venuto dalla Norvegia. Nel gennaio 2020, la prima ministra norvegese ha perso la maggioranza parlamentare dopo che un partito di destra, il Partito del progresso, ha ritirato i propri ministri in opposizione alla decisione di rimpatriare dalla Siria una donna insieme con i suoi due figli, per motivi umanitari (uno dei due bambini necessitava di cure mediche).
La presa in carico di queste persone richiede anche investimenti economici e logistici non trascurabili, almeno per paesi che debbano confrontarsi con un contingente nazionale relativamente ampio in Siria e Iraq, come la Francia (circa 150-200 adulti e 200-250 bambini, secondo le stime dell’Egmont Institute). I costi per il rimpatrio, il processo, le attività di sorveglianza, possibili iniziative di deradicalizzazione e reinserimento sociale e altre spese potrebbero essere ritenuti gravosi – e di fatto persino insostenibili, se combinati con forti ostilità e resistenze politiche.
Infine, occorre considerare il rischio di rimpatriare persone potenzialmente pericolose, dato che indubbiamente alcuni foreign fighter di ritorno non hanno abbandonato l’ideologia jihadista e potrebbero inoltre essere ancora interessati a usare o quantomeno a promuovere la violenza per raggiungere i propri obiettivi estremisti. Nel peggiore degli scenari, il loro ritorno potrebbe aumentare la minaccia terroristica in Europa; i combattenti stranieri potrebbero infatti trarre vantaggio dalle competenze ed esperienze di combattimento, dai legami con altri militanti e dallo status sociale che hanno acquisito nelle zone di conflitto per sostenere o addirittura compiere personalmente atti di violenza. I dati disponibili mostrano che soltanto una minoranza degli attacchi terroristici effettivamente realizzati in Europa ha coinvolto foreign fighter, ma tra questi vi sono casi particolarmente gravi, come le stragi di Parigi del 2015 e di Bruxelles del 2016. In ogni caso, il rimpatrio di un numero consistente di combattenti stranieri jihadisti potrebbe avere quantomeno l’effetto di aumentare ulteriormente il carico di lavoro delle forze antiterrorismo nel continente.
Costi troppo elevati
In definitiva, la grande maggioranza dei governi europei non appare disposta a sostenere questi rischi e questi costi. Anzi, alcuni stati, come il Regno Unito e la Danimarca, stanno persino cercando di evitare a monte qualsiasi responsabilità, revocando la cittadinanza di alcuni foreign fighter con doppio passaporto.
D’altra parte, l’opzione di lasciare questi cittadini europei nella regione ha implicazioni a dir poco problematiche. In Siria i campi e le prigioni che ospitano queste persone sono solitamente ambienti sovraffollati e in cattive condizioni, che rischiano peraltro di facilitare nuovi processi di radicalizzazione. Gli episodi di violenza in queste strutture, specialmente per mano di jihadisti (anche di sesso femminile), non sono rari e sono aumentati ulteriormente negli ultimi mesi. Inoltre, la pandemia di Covid-19 potrebbe peggiorare la situazione. Il rischio maggiore è che una parte di questi individui, compresi anche uomini con esperienze di combattimento, riesca a fuggire e possa continuare a promuovere la causa jihadista.
In questo contesto, la possibilità di celebrare processi direttamente in Siria da parte delle forze a maggioranza curda (oltretutto, un attore non statale, già oberato di impegni militari e politici nell’area) sembra quanto meno incerta, mentre la prospettiva di istituire un tribunale internazionale speciale al momento non gode di sufficiente sostegno politico.
Negli ultimi mesi si sono registrati parziali segnali di cambiamento. In particolare, sulla base di una valutazione nazionale caso per caso, una minoranza dei paesi europei ha mostrato una posizione meno riluttante rispetto al rimpatrio dei propri cittadini, almeno quando riguarda bambini, tanto più non accompagnati. In questo contesto, l’Italia si è segnalata per un certo attivismo, presumibilmente facilitato anche da un numero limitato di soggetti con cittadinanza italiana. Le nostre autorità, in particolare, hanno già rimpatriato una donna italiana con i suoi bambini, eccezionalmente due uomini, e anche un bambino di nazionalità albanese cresciuto in Italia.
Tuttavia, centinaia di foreign fighter jihadisti con passaporto europeo rimangono ancora sospesi in una condizione di limbo in Siria e Iraq e le soluzioni a questo problema complesso e delicato, oggi quasi rimosso nel vecchio continente, appaiono ancora tutte da costruire.
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