Sul destino del giornalista assassinato non ci sono ancora certezze e il motivo è anche l’alleanza fra occidente e sauditi. Ed è facile cadere in equivoci e contraddizioni
- Il 2 ottobre 2018 veniva assassinato il giornalista Jamal Khashoggi. A due anni di distanza non c’è ancora certezza su come siano andate le cose. Anche perché l’Arabia Saudita rimane il più prezioso alleato dell’occidente nel mondo arabo.
- Nel Paese c’è anche una minoranza sciita che rende meno stabile il Paese di quello che potrebbe sembrare. Questi cittadini sauditi vivono nel nord ricco di petrolio.
- Mohammed bin Salman è emerso, poco più che trentenne, da una gerontocrazia di solito molto retriva che ha tenuto per molti decenni le redini dell’Arabia Saudita. Ma anche se ha portato una certa modernizzazione, non mette in discussione i pilastri del potere.
Il 2 ottobre 2018, nei locali del consolato saudita a Istanbul veniva assassinato il giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Che si trattasse di un omicidio politico fu subito evidente. Che i mandanti dovessero essere cercati nell’entourage dell’uomo forte dell’Arabia Saudita, il giovane e ambizioso principe ereditario Mohammed bin Salman, apparve altrettanto plausibile.
A due anni di distanza tuttavia non vi è alcuna certezza al proposito e, soprattutto, sono emerse numerose contraddizioni che dimostrano ancora una volta quanto strabico sia lo sguardo dell’occidente nei confronti degli affari arabo islamici e in senso lato mediorientali.
Un alleato scomodo
In primo luogo Kashoggi apparteneva, con tutta probabilità, ai Fratelli musulmani, un’organizzazione che in occidente e in Arabia Saudita è automaticamente catalogata come terrorista. Ma allora: Kashoggi era un terrorista o un martire della libertà di pensiero?
Certamente, né l’uno né l’altro. Il fatto è che certi paradigmi, se applicati pedissequamente, non funzionano.
In secondo luogo non si è trovato alcun vero colpevole poiché l’Arabia Saudita era e rimane, dopo Israele, il più prezioso e affidabile alleato dell’occidente nel mondo arabo.
Per cui nei suoi confronti si può quotidianamente rumoreggiare che alle donne è vietato guidare l’automobile, ma nel contempo nessuna esplicita condanna viene pronunciata nei confronti dei bombardamenti sullo Yemen che hanno provocato una devastante crisi umanitaria. È il consueto double standard che gli arabi ormai da decenni giustamente ci rimproverano.
Una solidità apparente
L’aspetto più importante che di norma sfugge all’osservatore non specializzato di cose mediorientali è che l’Arabia Saudita, che esteriormente esibisce un’impressione di grande compattezza, è forse meno solida di quello che sembri. Innanzitutto è da ricordare che il 19–20 per cento della popolazione del regno è sciita.
Questa porzione niente affatto esigua di cittadini sauditi sciiti vive nel nord del paese in territori ricchi di petrolio. È facile comprendere come siffatta minoranza possa essere disponibile ad ascoltare le lusinghe dell’Iran e quindi costituire un pericolo interno non trascurabile per una monarchia che si professa rigorosamente sunnita.
Imam perseguitati
Sebbene non facciano notizia sui mass media, non sono rari i processi, gli arresti e le persecuzioni di imam o di altri alti esponenti religiosi sauditi sciiti. Non bisogna poi dimenticare che Osama bin Laden era saudita; che la grande maggioranza degli attentatori delle Torri gemelle era saudita; che i rapporti della famiglia regnante allargata con l’establishment religioso ufficiale non sempre sono pacifici e favorevoli alla monarchia, anzi.
Il patriarca fondatore della dinastia, il mitico Abd al-Aziz ibn Saud morto nel 1953, dovette addirittura combattere apertamente per consolidare il suo trono e per tutti i cinquant’anni del suo lungo regno dovette faticosamente mediare con le autorità religiose, gli ulema. Anche in seguito i rapporti di re carismatici come Faysal, o più opachi come Fahd, con i sapienti religiosi non sono mai stati di piatta subordinazione dei secondi ai primi.
I Fratelli musulmani
Negli ultimi decenni del Novecento una forte corrente di contestazione religiosa, la sahwa o “risveglio”, mise in crisi profonda le istituzioni monarchiche e dovette essere prima repressa e poi normalizzata. Un caso del tutto particolare è quello dei Fratelli musulmani.
A un osservatore non esperto potrebbe sembrare strano che una monarchia conservatrice come quella dei Saud non trovi sponda in una organizzazione altrettanto conservatrice come la Fratellanza. Il fatto è che la Fratellanza è sempre stata un movimento molto politicizzato dalle radici popolari, che ha sempre cercato una legittimazione dal basso.
Quando perciò i Fratelli musulmani, spesso emigrati da altri paesi come l’Egitto, hanno cominciato a occupare le cattedre universitarie e a infiltrarsi negli interstizi del sistema religioso, sono diventati un nemico, da perseguitare non solo in Arabia ma in tutti gli altri paesi del mondo arabo.
Uno strumento di contestazione
Non è un caso che i sauditi abbiano aiutato e plaudito il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi quando nel 2013 ha scatenato la nota terribile repressione contro i Fratelli nel suo paese.
Insomma, la contestazione religiosa di un governo e di un sistema politico che si professa religioso non deve affatto stupire: il carattere per così dire “laico” dell’islam, dove non è la religione a dirigere e strumentalizzare la politica, ma la politica a dirigere e strumentalizzare la religione, fa sì che l’islam stesso possa divenire uno strumento di contestazione e di rivendicazione.
Mohammed bin Salman
Il principe Mohammed bin Salman è in tutti i casi un personaggio notevole. È emerso, poco più che trentenne, da una gerontocrazia di solito molto retriva che ha tenuto per molti decenni le redini dell’Arabia Saudita. Un paese che non ha alcuna costituzione, che rivendica (con dubbia legittimità) la custodia dei luoghi santi di Mecca e Medina, che ha ambito e ambisce a essere la guida di tutto il mondo musulmano sunnita.
Queste ambizioni giustificano almeno in parte le chiusure sociali e politiche per cui il regno è tristemente noto. Ma Mohammed bin Salman sembra aver portato una ventata di aria fresca, una certa qual modernizzazione che però non mette in discussione i pilastri del potere eretti dal suo antenato Abd al-Aziz ibn Saud.
Certamente il principe è pragmatico e spregiudicato e può aver visto di buon occhio l’omicidio di Khashoggi. Certamente sta cercando di consolidare una monarchia contemperando la tradizione con certe esigenze della modernità. Forse un cambiare tutto per non cambiare nulla. Solo il tempo ci dirà se le cose stanno proprio così.
In ogni caso, quando si mette in moto un meccanismo di modernizzazione è difficile che la società e il sistema politico non ne subiscano, nel bene e nel male, le conseguenze. L’alleanza dell’Arabia Saudita con l’occidente è solida e, in chiave geopolitica, intende bilanciare a favore del sunnismo l’influenza iraniana sciita.
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