Come già evidenziato da molti su queste pagine, che la tregua fra Hamas e Israele dovesse finire era scritto nella condizione delle parti coinvolte, finite in un vicolo cieco da cui, a quanto pare, non sanno come uscire.
Da un lato Netanyahu mira ad una guerra lunga, cosa di cui in Israele c’è coscienza almeno dall’inizio dell’attacco di terra. Un po’ per calciare la lattina allungando il tempo della propria sopravvivenza politica, un po’ perché, indifferente agli immani danni creati al proprio paese e insensibile al clamoroso fallimento di tutta la sua traiettoria politica costruita sul rancore creato dagli accordi di Oslo, ha in mente di riciclarsi come difensore della patria.
Come colui che ha mantenuto la promessa di stanare Hamas in ogni dove, tanto in quella atroce rete di tunnel ci devono andare gli altri, non lui o i suoi figli, già accusati dall’opinione pubblica di renitenza alla leva.
Linea su cui giocano un peso non indifferente le sue vicende personali, con la ripresa dei processi che potrebbero portarlo in galera sempre più vicina.
Così come solo la guerra rimane a quella banda di razzisti e criminali al suo fianco, che pure stanno facendo di tutto per esportare il conflitto in Cisgiordania, dove i coloni hanno già ammazzato duecentocinquanta persone dal famigerato 7 ottobre. z
Chiusa questa guerra, si aprirà anche per loro un problema di sopravvivenza politica, con la quasi certezza di vedere estinto l’intero sistema di potere che, proprio grazie al ventennio di Netanyahu, hanno potuto consolidare in West Bank. Se Atene piange, Sparta non ride.
Sorte analoga rischia di toccare a Hamas. E non perché Super-Bibi la farà fuori, cosa che non ha alcun potere di fare (anche ammesso riuscisse a smantellarla, resusciterebbe dalle ceneri come la fenice), ma perché è totalmente isolata da tutto il mondo musulmano. Troppo destabilizzante per l’intera area mediorientale la macelleria del sette ottobre, che, come una trappola perfetta, ha costretto Israele all’intervento durissimo che sta conducendo in una delle zone più densamente abitate al mondo. Col corollario di vittime civili che si porta dietro.
Esistevano alternative alla reazione militare? Tutti ne parlano, nessuno ne ha tirata fuori mezza. Se la sorte degli attuali contendenti sembra segnata, a patto di una poco probabile ma mai impossibile estensione del conflitto, i problemi non si fermano, però, qui.
A mio parere, molti dati degli ultimi anni, non ultimo l’attivismo di quel paese intersezione di interessi che è il Qatar, fanno capire che l’intero Medio Oriente è in cerca di stabilità, anche se, dopo il fallimento dell’Iran deal del 2015 e il congelamento degli Accordi di Abramo partiti nel 2020, una quadra alla plurivocità degli interessi in gioco non si è ancora trovata.
Sono, però, pronti i due popoli in prima fila? Netanyahu è stato solo il detonatore di un conflitto interno alla società israeliana, dove, dall’assassinio di Rabin in poi, si è palesata una parte di società ebraica che non si è mai riconosciuta nel patto sionista, che bene o male era stato il punto di caduta fra identità nazionale e principi universali condiviso dalle varie anime del mondo ebraico.
Si tratta di quella parte del mondo ashkenazita che non ha mai assorbito gli ideali della askalà, l’illuminismo ebraico, e dei mizrachim, gli ebrei provenienti dai paesi arabi, che non hanno mai sentita riconosciuta la loro sofferenza secolare, subordinata al trauma della Shoà.
Il mondo palestinese è, invece, da anni sprofondato in una guerra civile, che solo la leadership onnicomprensiva di Arafat era riuscito, sempre più a fatica, a mascherare. Una lotta egemonica, che si è tradotta in una corsa verso il peggior integralismo.
Prima vittima: il popolo palestinese, a Gaza e in Cisgiordania. Visto da qui, appare una barzelletta l’attuale tentativo di riunire le due leadership. Si parla di due popoli due Stati, oppure tre, con una Gaza separata dalla Cisgiordania, ma quali sono i traghettatori in grado di transitare le rispettive collettività in questi nuovi porti?
Forse, due nomi che potrebbero fungere da cerniera nei propri mondi ci sono: si chiamano Naftali Bennet e Marwan Barghuthi. Tanto grandi appaiono le fratture interne ai due fronti che c’è da essere pessimisti. Non rimane che il proverbiale ottimismo della volontà.
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