Nel paese devastato dal conflitto anche la Ong è stata costretta ad abbandonare l’ospedale da campo. Il vicecoordinatore locale: «Ora anche aree che erano tranquille sono divenute teatro di combattimenti»
Sul finire di un anno disastroso per il Sudan, si è aperto un nuovo fronte in un’area fin qui risparmiata dal conflitto che sta devastando il paese africano da oltre otto mesi. Le Rapid Support Forces (Rsf), milizie paramilitari sotto il comando di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, attorno alla metà di dicembre hanno lanciato un attacco a sorpresa alla città di Wad Madani, nello Stato di Aj Jazirah, oltre 150 km a sud-est di Khartoum.
Dopo alcuni giorni di intensi bombardamenti aerei da parte delle Sudanese Armed Forces (Saf), cui ha risposto l’artiglieria delle Rsf, le Saf hanno battuto in ritirata lasciando campo aperto alle truppe di Hemedti. Gli scontri e l’ingresso delle forze paramilitari hanno terrorizzato la popolazione, che ha lasciato in massa le proprie case cercando rifugio in altre safe haven del paese, che, a causa del dilagare del conflitto, si riducono di settimana in settimana.
Secondo l’Onu, dall’area, che aveva ospitato fino a un paio di settimane fa mezzo milione di persone scappate dalla capitale, sarebbero già 300mila le persone in fuga. La situazione di emergenza umanitaria in cui versa il Sudan dal 15 aprile scorso investe moltissimi campi vitali, quali la fornitura di cibo, acqua e beni primari, l’educazione e, in modo drammatico, la sanità.
In tutto il paese, infatti, restano pochissimi centri sanitari in funzione, e ora anche nell’area di Wad Madani gli ospedali – come riporta il sindacato dei medici sudanesi – «si stanno svuotando e potrebbero essere costretti a chiudere». È del 29 dicembre la notizia della sospensione delle attività mediche e dell’evacuazione dei team di Medici senza frontiere (Msf) in aree più sicure, anche in paesi limitrofi, a seguito di un attacco da parte di uomini armati al proprio compound. Poco prima era toccato ad Emergency. Lo staff della clinica aperta ad agosto a Wad Madani per i pazienti bisognosi di terapia a vita impossibilitati a raggiungere l’ospedale della ong nella capitale a causa del conflitto è stato costretto alla fuga.
Per avere informazioni direttamente dal campo, Domani ha raggiunto al telefono Nassir Ahmed, vice coordinatore del programma di Emergency in Sudan.
Vi aspettavate che gli scontri arrivassero anche in quest’area?
Assolutamente no. Wad Madani è il cuore del Sudan, è la zona commerciale ed economica del paese, un’area di calma dove si poteva ancora investire. È il centro di uno dei maggiori progetti agricoli di tutto il continente africano, insomma una città molto importante. È un luogo molto strategico sulla riva occidentale del Nilo Azzurro. Non c’erano stati combattimenti fino a ora, e siamo rimasti molto sorpresi quando abbiamo saputo dell’attacco delle Rsf.
Al momento qual è il rapporto di forze nell’area?
Le Rsf hanno il controllo di tutta la città. Sull’andamento dei combattimenti, poi, ci sono delle cose che non risultano chiare. Nei primi due giorni, le Saf hanno risposto duramente al fuoco nemico e bloccato il ponte di ingresso alla città. Poi, improvvisamente, il ponte è stato aperto e le Rsf sono entrate indisturbate. Non so se si tratti di tattica o di crollo totale da parte dell’esercito.
Ora che avete dovuto abbandonare il polo sanitario a Wad Madani sorto per i pazienti operati al cuore che non riuscivano a raggiungere il vostro centro Salam a Khartoum, che ne sarà di loro?
Questo è un problema molto serio. Tutto lo staff composto da dieci persone ha dovuto andarsene e chiudere il centro. Ci siamo inizialmente spostati verso sud, e lo staff è rimasto allocato a Sennar per qualche giorno. Purtroppo, però, anche lì si sono verificati scontri negli scorsi giorni, e lo staff è stato spostato a Soba (Khartoum), dove si trova il nostro centro Salam di cardiochirurgia. Non escludiamo di riaprire la clinica a Wad Madani nei prossimi giorni se gli scontri termineranno e le condizioni di sicurezza lo permetteranno.
Dei poli sanitari di Emergency, restano aperti il Salam Centre di Khartoum, il centro pediatrico a Port Sudan e un’altra clinica satellite ad Atbara. Com’è la situazione attorno a questi centri? Ci sono pericoli? E ci sono novità sul vostro centro pediatrico a Nyala chiuso di recente a seguito dell’arresto di membri del vostro staff da parte delle Rsf?
Lì la situazione è tranquilla, sono tutti centri lontani dalle aree di conflitto. A Nyala, invece, a ottobre il centro è stato totalmente saccheggiato e lo staff preso in ostaggio dalle Rsf. Fortunatamente, dopo poco tempo, i nostri operatori sono stati rilasciati e le Rsf hanno prima chiesto scusa e poi annunciato la volontà di ricompensare in qualche modo. La nostra intenzione, quindi, è di riaprire al più presto. Abbiamo medicine per la terapia anticoagulante che acquistiamo nel mercato locale che abbiamo ripreso a fornire ai nostri pazienti di Nyala. La clinica, come dicevo, è stata saccheggiata, quindi al momento è vuota, ma almeno funziona per la distribuzione di medicine e per i controlli.
Circa un mese fa c’è stato un attacco contro la Croce rossa internazionale, due operatori sono morti e sette rimasti feriti, ci sono timori che altri organismi umanitari vengano colpiti?
Devo dire che quell’attacco è pieno di elementi poco chiari, sono certo che purtroppo sono stati commessi alcuni errori fatali. Il lavoro della Croce rossa è differente dal nostro. Posso dirle con certezza che qui a Khartoum, dove ora mi trovo, dall’inizio della guerra non abbiamo avuto alcun problema. Le Rsf (che controllano l’area dove sorge l’ospedale, ndr) ci rispettano, e abbiamo buoni contatti anche con le Saf. Non siamo un target e non pensiamo di essere in pericolo.
Qual è la situazione generale della sanità nel paese?
Prima della guerra era vicina al collasso, ora è praticamente a un passo dal baratro. Nello stato di Khartoum, che è grande quanto la Francia, funzionano solo 4/5 ospedali. Ora anche aree tranquille dove si poteva operare senza grossi problemi sono divenute zone di conflitto. È quindi doveroso ammettere che purtroppo il sistema è collassato nel complesso.
Di recente ci sono state flebili speranze di un incontro tra al Burhan ed Hemedti, ha fiducia che i due si parlino presto?
Non è facile che si incontrino, non dipende solo da loro, poi. Dietro ognuno di loro ci sono forze e interessi. Per questo credo che la comunità internazionale debba fare pressione su chi li sostiene: Egitto, Qatar e Turchia dietro ad al Burhan, e Ciad, Emirati Arabi Uniti e Kenya dietro a Hemedti.
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