Le telecamere in Cina a partire dal 2017, quando il governo ha promosso lo sviluppo dell’industria dell’intelligenza artificiale, sono diventate mezzi con cui raccogliere i dati biometrici dei cittadini grazie alla tecnologia del riconoscimento facciale: la popolazione non è d’accordo e adesso sembra che Pechino concederà una norma per regolare l’utilizzo
- Da tempo ormai la Cina è uno dei paesi più tecnologicamente avanzati, e quindi sorvegliati, al mondo. Si stima che sul suo territorio due anni fa fossero già presenti 350 milioni di videocamere e che entro il prossimo anno diventeranno 560 milioni, circa una ogni tre persone.
- Se per quanto riguarda il contact tracing durante la lotta al Covid-19 l’opinione pubblica cinese non si è particolarmente scomposta, al riconoscimento facciale da subito è stata riservata un’accoglienza più fredda.
- Quando la raccolta dei dati personali è apparentemente inutile e può rivelarsi fonte di truffe, l’opinione pubblica cinese, a differenza di quanto potremmo pensare noi, si fa sentire.
Per la sua performance Un movimento scomparso, l’artista cinese Deng Yufeng ha trascorso due mesi a studiare la posizione delle videocamere di sorveglianza installate sulla via Xingfu, nel distretto di Chaoyang a Pechino. Un’impresa complicata: il loro numero e la loro collocazione cambiavano di continuo, perché le apparecchiature si moltiplicavano anche da una settimana all’altra. Lo scopo di Deng, che si occupa da anni del tema della privacy e dell’invasività delle nuove tecnologie, era quello di riuscire a creare una mappa precisa per provare ad evitare tutti quegli occhi elettronici.
Tuttavia, come ha dichiarato lo stesso artista in un’intervista alla rivista online Sixth Tone: «Ora è quasi impossibile essere completamente invisibili alle telecamere. La cosa migliore che si può fare è tentare di nascondere il volto per evitare che venga scansionato». Il 26 ottobre scorso Deng ha guidato una decina di persone lungo quel tragitto, per insegnare loro come non essere inquadrate in faccia. Il gruppo ha impiegato più di due ore per percorrere un chilometro. Il video dell’installazione artistica all’inizio è buffo - i dieci camminano, si voltano, si accovacciano, aspettano, si spostano radenti ai muri - ma più procede più si viene assaliti da una sensazione di inquietudine, che porta a realizzare quanto sia ormai impossibile sfuggire agli occhi del Grande Fratello cinese.
Videocamere ovunque
Da tempo ormai la Cina è diventata uno dei paesi più tecnologicamente avanzati, e quindi sorvegliati, al mondo. Si stima che sul suo territorio due anni fa fossero già presenti 350 milioni di videocamere e che entro il prossimo anno diventeranno 560 milioni, circa una ogni tre persone. Le telecamere sono state utilizzate a lungo come strumenti di sorveglianza a circuito chiuso, ma a partire dal 2017, quando il governo ha promosso lo sviluppo dell’industria dell’intelligenza artificiale, sono diventate mezzi con cui raccogliere i dati biometrici dei cittadini grazie alla tecnologia del riconoscimento facciale.
E il progresso tecnologico è stato incredibilmente veloce: durante la pandemia sono state sviluppate apparecchiature in grado di riconoscere le persone che indossavano la mascherina, e proprio la scorsa settimana uno scoop del Washington Post ha accusato l’azienda di telecomunicazioni cinese Huawei di aver collaborato con la società Megvii, leader del settore dell’intelligenza artificiale, per testare un software in grado di distinguere i tratti del viso dei membri dell’etnia musulmana uigura, originaria dello Xinjiang, e di trasmetterli in tempo reale alle autorità di pubblica sicurezza.
Quello dei Big data, in Cina, è ormai un business gigantesco: la società di ricerche di mercato Idc ha previsto che entro il 2023 il giro d’affari attorno ai dati digitali del Dragone potrebbe valere 22,49 miliardi di dollari.
Controllo continuo
Vivere in una città cinese oggi equivale ad essere continuamente esposti: in metropolitana, nelle stazioni dei treni, lungo le strade, a scuola, nei centri commerciali, ovunque si finisce al centro di un’inquadratura che scansiona il volto. Addirittura nei distributori di carta igienica dei bagni pubblici, per evitare che vengano prelevate quantità eccessive di prodotto.
Se per quanto riguarda il contact tracing durante la lotta al Covid-19 l’opinione pubblica cinese non si è particolarmente scomposta - sia perché il concetto di privacy in Cina, per motivi storici e culturali, ha avuto uno sviluppo diverso rispetto al nostro, sia perché negli ultimi mesi i Big data hanno avuto un ruolo fondamentale nella gestione della pandemia - al riconoscimento facciale da subito è stata riservata un’accoglienza più fredda. I colossi Ant e Wechat hanno investito miliardi di yuan per permettere i pagamenti tramite questa tecnologia già dal 2017, eppure ad oggi i cinesi continuano a preferire il sistema di pagamento digitale tramite la scansione dei QRCode attraverso gli smartphone.
Le cause sembrano essere la poca praticità (è piuttosto macchinoso il processo di attivazione della propria identità affidata ai tratti somatici) e la paura dei cittadini che l’utilizzo del riconoscimento facciale nelle transazioni economiche possa ledere eccessivamente il loro diritto alla privacy. Secondo un sondaggio condotto da un think tank affiliato al quotidiano Southern Metropolis Daily alla fine del 2019, l’80 per cento degli interpellati, nonostante avesse un parere positivo riguardo al crescente utilizzo di questa tecnologia per prevenire i crimini, era preoccupato per le potenziali frodi online, per i “deepfake” e per i video manipolati che possono diffondere informazioni false sulle persone.
La “faccia”, in una società fortemente gerarchica e collettivista come quella cinese, è un concetto fondamentale e indica la reputazione e il prestigio di cui un individuo gode in ambito lavorativo, familiare o scolastico. «Perdere la faccia» - in mandarino «diu mianzi» - in Cina equivale più che altrove a una vera e propria umiliazione e costituisce una fonte di imbarazzo e vergogna di fronte alla comunità di appartenenza.
Sfuggire alla sorveglianza
A ottobre sull’internet cinese è diventato virale il video di un uomo che visitava un’agenzia immobiliare di Jinan con indosso un casco integrale, per evitare che le videocamere raccogliessero i suoi dati. Il tema crea dibattito e la discussione pubblica sempre più forte ha cominciato a influenzare le politiche del governo. A inizio dicembre la municipalità di Tianjin - grande città portuale a 100 chilometri da Pechino - ha emanato un regolamento che, a partire dal 2021, proibirà a istituzioni e imprese di raccogliere informazioni e dati biometrici personali degli utenti in assenza di una loro esplicita autorizzazione.
Qualcosa di simile è accaduto anche ad Hangzhou, capoluogo della provincia dello Zhejiang e quartier generale del colosso dell’e-commerce Alibaba, dove le autorità hanno vietato il riconoscimento facciale all'ingresso dei compound residenziali. Alle origini del dibattito sull’invasività della videosorveglianza c’è stata in realtà una vicenda giudiziaria molto seguita e commentata sui social cinesi, iniziata circa un anno fa e conclusasi questo autunno con un verdetto storico, destinato ad influenzare pesantemente questa delicata materia.
Il caso ha avuto al centro il Safari Park di Hangzhou, chiamato in causa da Guo Bing, professore di giurisprudenza alla Sci-Tech University dello Zhejiang, per aver sostituito il sistema di accesso all’abbonamento annuale, fino a quel momento basato sulle impronte digitali, con il riconoscimento facciale obbligatorio. Il tribunale ha dato ragione a Guo Bing, imponendo allo zoo di risarcire il cliente e di cancellare i suoi dati raccolti dalle videocamere.
Quando la raccolta dei dati personali è apparentemente inutile e può rivelarsi fonte di truffe (negli ultimi anni in Cina è molto frequente il fenomeno di acquisirli e rivenderli a terzi), l’opinione pubblica cinese, a differenza di quanto potremmo pensare noi, si fa sentire. Il governo è consapevole del crescente scontento e ad ottobre, dopo anni di discussione, ha pubblicato una bozza di legge per trovare un equilibrio tra l’uso selvaggio dei Big data e la tutela della privacy. Le compagnie che raccolgono i dati dovranno chiedere il consenso al loro trattamento e informare le persone su come vengono utilizzati.
L’impostazione è simile a quella del General data protection regulation dell’Unione europea, il più rigoroso del mondo. Rimane ancora poco chiaro quale uso dei dati faccia il governo, tanto che alcuni analisti hanno sollevato il dubbio secondo cui la bozza di legge rappresenti un tentativo del Partito di limitare la raccolta di informazioni da parte dei privati al fine di ottenere una sorta di monopolio sul loro controllo.
Gli sviluppi di queste vicende cinesi dovranno essere monitorati anche da parte nostra perché, come scrive il giornalista Simone Pieranni, autore del saggio Red Mirror - Il Nostro futuro si scrive in Cina ed esperto di questi temi, la Cina contemporanea è sempre di più un laboratorio di quello che potrebbe essere il futuro tecnologico per tutto il pianeta. Il tema del controllo dei Big Data è uno di quelli che non potremo eludere.
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