La convinzione largamente diffusa è che la crisi climatica sarà causa di consistenti movimenti migratori. I dati invece mostrano che il riscaldamento globale probabilmente avrà l’effetto di intrappolare le persone
«La grande migrazione climatica è iniziata». «La crisi climatica potrebbe causare la migrazione di 1,2 miliardi di persone entro il 2050». «La migrazione sarà presto la più grande sfida climatica del nostro tempo».
Questi sono solo alcuni dei titoli apparsi sulle principali testate internazionali. Riflettono la convinzione largamente condivisa che il cambiamento climatico porterà a migrazioni di massa. Un’ampia coalizione di giornalisti, politici, attivisti del clima ed esperti di migrazione sostiene che gli effetti del riscaldamento globale porteranno a consistenti spostamenti di rifugiati climatici.
Gran parte dell’attenzione dei media si è focalizzata sul destino delle “isole che affondano” nel Pacifico, come le Maldive e Tuvalu. Ci dicono che l’innalzamento del livello del mare costringe sempre più persone a trasferirsi: i primi rifugiati climatici al mondo. Gli esperti affermano che una serie di uragani devastanti legati al cambiamento climatico in America centrale hanno stimolato la migrazione verso gli Stati Uniti e che le siccità prolungate stanno costringendo sempre più africani a imbarcarsi in disperati tentativi di raggiungere l’Europa. Da questo punto di vista, contrastare il cambiamento climatico riducendo le emissioni di carbonio è l’unico modo per prevenire che un’onda umana di rifugiati climatici inondi i paesi occidentali.
Il riscaldamento globale è uno dei problemi più urgenti che l’umanità deve affrontare. Tuttavia collegare questo problema con lo spettro della migrazione di massa è una pratica pericolosa e fuorviante che si basa più su un mito che su fatti. Il tipico approccio delle apocalittiche previsioni sulla migrazione climatica è stato quello di mappare le variazioni indotte dai cambiamenti climatici (come l’innalzamento del livello del mare, la siccità o la desertificazione) in modelli di insediamento per prevedere il futuro spostamento umano. Se, ad esempio, i modelli di cambiamento climatico prevedessero un innalzamento del livello del mare di mettiamo - 50 centimetri, sarebbe possibile mappare tutte le aree costiere interessate da questo aumento e quantificare la popolazione di quelle zone. Il presupposto è che tutte quelle persone si dovrebbero spostare.
Sono sempre rimasto esterrefatto da quanto ingenuamente alcune serie organizzazioni di ricerca accettino questo ragionamento deterministico, che presuppone una relazione uno a uno tra ambiente e migrazione, in cui le “pressioni ambientali” in qualche modo generano automaticamente movimento. Ci sono varie ragioni per diffidare di questa narrazione, ne spieghiamo solo tre.
La terra buona
I geografi da tempo osservano che i popoli mostrano una grandissima resilienza nel far fronte alle carestie e alle minacce ambientali. In effetti, invece di allontanarsi, spesso si sono spostati verso luoghi che presentano i maggiori rischi ambientali, come le valli fluviali e le aree costiere, perché queste tendono anche ad essere le aree più fertili e prospere: l’esatto opposto delle previsioni climatiche sui rifugiati.
Il paradosso è che i terreni agricoli più fertili tendono anche ad essere i più soggetti alle inondazioni. La valle del Limpopo nel Mozambico meridionale è una fertile area agricola soggetta a inondazioni regolari, talvolta disastrose, che occasionalmente costringono gli agricoltori lontano dai loro campi e dalle loro case.
Tuttavia, sono in pochi a decidere di lasciare definitivamente la valle perché è proprio lì che si trovano acqua e terre fertili. Come direbbero gli agricoltori locali: «La terra buona è lì dove arriva l’alluvione». Per questa ragione, i coltivatori di quelle terre non sono disposti ad abbandonare le fertili valli fluviali e le aree del delta. Storicamente hanno imparato a far fronte alle inondazioni stagionali e occasionali, trasformandole in uno stile di vita, ad esempio costruendo dighe, tumuli, case su palafitte o persino case galleggianti.
Innalzamento terrestre
Le drammatiche previsioni di massicce migrazioni climatiche si basano anche sulla supposizione che l’innalzamento del livello del mare spingerà gli abitanti delle zone costiere a spostarsi. Ma non possiamo dare per scontato che le aree più basse saranno sommerse. E questo principalmente perché i processi di sedimentazione, che portano le terre a crescere, possono controbilanciare gli effetti dell’erosione e dell’innalzamento del livello del mare. L’innalzamento del territorio per sedimentazione spiega perché gli studi delle immagini satellitari hanno dimostrato che la maggior parte dei delta, delle mangrovie e delle altre paludi costiere del mondo sono in realtà cresciute, e non si sono ridotte negli ultimi decenni, nonostante l’innalzamento del livello del mare.
Non è chiaro se i guadagni in termini di terra saranno in grado di tenere il passo dell’innalzamento accelerato del livello del mare in futuro, tuttavia tali prove mostrano l’ingenuità della semplicistica narrazione secondo cui «le terre saranno inondate».
Le prove contrastano anche lo stereotipo secondo cui le isole del Pacifico starebbero “sprofondando” massicciamente nell’oceano. Uno studio che ha analizzato trenta atolli del Pacifico e dell’Oceano Indiano, comprendendo 709 isole in totale, ha rivelato che l’89 per cento delle isole erano stabili o erano cresciute in superficie, mentre solo l’11 per cento era diminuito nelle sue dimensioni.
Tuvalu è una piccola nazione del Pacifico spesso indicata dai media come una delle prime nazioni che probabilmente in futuro scomparirà del tutto a causa dell’innalzamento del livello del mare. Uno studio recente ha dimostrato che tra il 1971 e il 2014, otto dei nove atolli di Tuvalu e i quasi tre quarti delle 101 isole della barriera corallina erano cresciuti di dimensioni. La superficie totale di Tuvalu sarebbe quindi aumentata del tre per cento, anche se a Tuvalu il livello del mare è aumentato del doppio della media globale.
Questo fatto contraddice la supposizione secondo cui l’innalzamento del livello del mare legato al cambiamento climatico è già una ragione significativa dell’attuale migrazione nelle aree del delta come il Bangladesh o le isole del Pacifico. Questo non significa che non sia possibile che in futuro il livello del mare superi il guadagno di terra grazie alla sedimentazione. Ma non possiamo semplicemente presumere che la terra verrà semplicemente sommersa perché il livello del mare sta crescendo.
Povertà immobile
Non possiamo nemmeno presumere che in generale gli stress ambientali “spingeranno” automaticamente le persone fuori dalle loro case. Un ampio numero di studi ha mostrato che in seguito a shock naturali le persone generalmente preferiscono restare a casa e fanno tutto il possibile per restarci.
Nelle situazioni in cui la produttività agricola è compromessa, singoli membri di famiglie con risorse sufficienti possono migrare verso paesi o città come strategia per guadagnare un reddito extra. Tuttavia, è più probabile che tali spostamenti siano interni e temporanei che internazionali e permanenti, poiché le persone generalmente preferiscono rimanere vicino a casa e la migrazione a lunga distanza è costosa.
L’idea che il cambiamento climatico porterà a migrazioni di massa si basa su popolari modelli “push-pull” che presuppongono ingenuamente che la migrazione sia in qualche modo una funzione lineare della povertà, della violenza e di altre forme di miseria umana.
Tuttavia migrare richiede risorse significative, in particolare la migrazione a lunga distanza, dalle zone rurali alle città o all’estero. La povertà estrema tende in realtà a privare le persone vulnerabili dei mezzi per viaggiare e migrare su grandi distanze.
Dagli studi più dettagliati non emerge un semplice nesso causale tra lo stress ambientale e la migrazione. È stato riscontrato, ad esempio, che una grave siccità nelle zone rurali del Mali, ha aumentato la migrazione temporanea a breve distanza verso le città vicine per integrare il reddito familiare, ma non ha aumentato la migrazione internazionale e a lunga distanza.
In Malawi, è stato dimostrato che siccità e inondazioni riducono l’emigrazione dalle zone rurali verso le città. Allo stesso modo, è stato dimostrato che la siccità in Burkina Faso riduce gli spostamenti internazionali verso la Costa d’Avorio.
Pertanto, la scarsità e la povertà, siano esse legate a fattori ambientali o di altro tipo, potrebbero effettivamente impedire alle persone di migrare, certamente su lunghe distanze.
L’invenzione della minaccia
L’accelerazione del surriscaldamento globale avrà gravi effetti sulla produzione e sui mezzi di sostentamento e sulla generale stabilità degli ecosistemi del pianeta, che potrebbero raggiungere un pericoloso punto di non ritorno.
Serve un’azione urgente per evitare danni irreparabili. Tuttavia le previsioni apocalittiche di una massiccia migrazione climatica non sono fondate empiricamente, ma su presupposti viziati sulla relazione tra cambiamento ambientale e migrazione.
Argomentare a favore della riduzione delle emissioni di carbonio paventando lo spettro di una massiccia migrazione climatica è quindi un tipico caso in cui si è nel giusto per la ragione sbagliata.
Le conseguenze negative del cambiamento climatico colpiranno più gravemente le popolazioni maggiormente vulnerabili che non hanno i mezzi per trasferirsi e che hanno maggiori probabilità di rimanere intrappolate in situazioni in cui la loro vita è in pericolo. Le più serie preoccupazioni sul cambiamento climatico dovrebbero riguardare non tanto i migranti, ma quelli che non si possono spostare affatto.
Questo articolo è stato pubblicato dalla testata online Persuasion.
La traduzione è a cura di Monica Fava.
© Riproduzione riservata