- Gli effetti incrociati di deglobalizzazione e guerra in Ucraina hanno reso molto complesso prevedere il futuro
- Russia e Cina sono d’accordo nel distruggere l’unipolarismo occidentale (anche se Pechino sa che i conflitti fanno male all’economia globale)
- Il resto del mondo resta per ora prudentemente a guardare, in equilibrio tra lo schierarsi e il rilancio del multilateralismo
La guerra di Khartoum è l’ultimo segnale degli effetti incrociati della guerra in Ucraina e della deglobalizzazione che stanno rendendo lo scenario internazionale fluido e caotico. Il conflitto russo contro Kiev ha provocato un decoupling politico (parallelo all’economico): occidente schierato a difesa dell’integrità territoriale ucraina; Russia favorevole alla rivisitazione delle frontiere; resto del mondo che evita di schierarsi o tenta di occupare gli spazi vuoti.
È ciò che accade in Sudan: il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita con l’aiuto cinese, riporta pace in Yemen ma causa scontri altrove. Mosca è intrappolata tra i due contendenti. In teoria tutti difendono il principio dell’intangibilità dei confini ma la sorgente di molti scontri in realtà è il crescente fastidio per l’unipolarismo occidentale. Su ciò fa leva la Russia per attrarre simpatie.
La Cina è ambivalente: cerca la pace (la guerra fa male al commercio) ma concorda con Putin nel contestare l’ordine unilaterale americano. L’antipatia per l’unipolarità occidentale si generalizza: Riad si muove in autonomia (come Teheran fa da tempo), come Ankara ed ora anche Israele. Lentamente si coagulano assieme cose molto diverse. La nuova geopolitica si modella in maniera flessibile ed articolata. La vera sfida all’occidente è una frastagliata e mutevole avversione ai suoi valori. In un mondo siffatto nuove potenze emergenti occupano spazi importanti in termini geopolitici.
In bilico
Va di moda l’equilibrismo: la Turchia è in bilico tra Nato, Russia e potenze mediorientali, così come l’Arabia Saudita o Israele stessa: nessuna delle tre nazioni adotta le sanzioni contro Mosca. Tra accordi di Abramo e riavvicinamento tra Teheran, Riad e Ankara, la politica mediorientale è in totale ristrutturazione. Scompare la competizione tra le quattro potenze del sud est (Egitto, Iran, Arabia Saudita e Turchia); scema la competizione sciiti/sunniti.
Basando la sua presenza sugli aspetti militari ed energetici, Mosca diviene più appetibile mentre i condizionamenti occidentali (democrazia e diritti) rimangono indigesti. Il mondo arabo è mutato: il vecchio fronte del rifiuto (filo-sovietico) è disarticolato: Siria e Iraq sono paesi quasi falliti e in guerra endemica; in Libia lo stato non esiste più; l’Algeria resta ingessata nei suoi antichi demoni.
Chi comanda ora sono l’Arabia Saudita (che sta reintegrando la Siria nel contesto arabo) e la Turchia di Erdogan. Gli analisti prevedono un aumento della presenza militare di Riad e alcuni temono che si doti dell’arma nucleare. Per ora ha chiesto di aderire ai Brics ed è entrata nell’organizzazione per la cooperazione di Shangai (Sco), dominato dalla Cina. Ankara si è resa indispensabile in molti scenari, iniziando una lenta divaricazione dagli alleati Nato.
Torna sulla scena l’Iran, per lunghi decenni considerato un paria. I saldi rapporti tra Teheran e Mosca prefigurano una speciale “associazione tra sanzionati”, alla ricerca di uno spazio economico alternativo comune, con l’appoggio della stessa Pechino.
L’isolamento avvicina
L’isolamento imposto dall’occidente avvicina tra loro gli esclusi. Il fatto che la Cina abbia mediato il riavvicinamento tra Riad e Teheran è politicamente rilevante: dimostra che Pechino inizia a prendere sul serio il suo ruolo di garante globale e che la politica degli stati del Golfo punta alla diversificazione, abbandonando la relazione preferenziale con Washington.
In Africa la rabbia contro la Francia aumenta senza ragioni apparenti: Parigi paga tutti assieme i debiti contratti in decenni di ingerenze. Gli africani si sentono liberi di rivolgersi altrove, pur consapevoli dei limiti dei nuovi partner. La politica europea sulle migrazioni provoca un effetto boomerang. Russia e Cina sono divenuti i principali fornitori di armi del continente. Forti le ripercussioni geopolitiche nel Sahel dove i jihadisti hanno cambiato strategia, adattandosi al caos da loro stessi provocato.
Ora sono disposti ad accordarsi con le giunte militari a patto di mantenere il controllo delle aree occupate. L’idea è quella di cogestire gli stati assieme agli eserciti golpisti, con forme di “governance ibrida”.
In Asia non tutti contestano le rivendicazioni cinesi sulla libertà di accesso agli oceani, anche se il timore per l’espansione di Pechino permane. Resta accesa la diatriba tra Cina e Giappone che ha spinto recentemente alla pacificazione di Tokyo con Seul, malgrado l’antica ruggine. Pechino continua a lavorare per il riavvicinamento tra le due Coree, in competizione con gli Stati Uniti. I cinesi sono riusciti in questi anni ad ottenere il riconoscimento di una parte delle proprie rivendicazioni nel mar della Cina meridionale, anche se ciò non significa l’accettazione di un’egemonia alternativa. Anche in Asia è forte la propaganda in favore della collaborazione tra paesi del sud del mondo, ricalcando l’ideologia maoista o quella russo-sovietica “anticoloniale”.
Globalizzazione e democrazie
Rimane aperto un problema: mentre gli Usa vogliono il disaccoppiamento delle economie (forti del loro controllo sullo spazio finanziario globale), la Cina preferirebbe proseguire nella globalizzazione senza frontiere. Ciò spiega lo sforzo fatto nella costruzione di una imponente rete di relazioni commerciali (via della seta terrestre e marittima) di cui ora paga un prezzo: molti paesi asiatici e africani non hanno di che rimborsare i prestiti cinesi e –come nel caso dello Sri Lanka o dello Zambia – vanno in default.
La via della seta è lastricata di debiti inesigibili: tra il 2000 e il 2021 Pechino ha garantito crediti per 240 miliardi, investendo in paesi finanziariamente fragili. Argentina, Mongolia, Pakistan, Egitto ed altri, stanno diventando un rischio finanziario per Pechino.
Nel subcontinente latinoamericano il ciclo è di nuovo cambiato con l’avvento al potere di governi di sinistra. Brasile, Colombia, Messico, Argentina, Cile ed altri convergono nel ritenere che la politica occidentale nei confronti della Russia sia troppo unilaterale.
Salvo il Costa Rica, nessuno ha introdotto sanzioni contro Mosca. Anche in tale contesto è in atto un equilibrismo tattico. Tra Usa e il resto del continente rimane aperta la questione migratoria: non è possibile allo stesso tempo contestare il Nafta (come ha preteso l’amministrazione Trump) e ottenere il contenimento dei migranti. Il tema più divisivo tra occidentali e resto del mondo è senz’altro quello della democrazia.
Sono gli occidentali stessi a dividere il mondo in base alle loro valutazioni: l’idea di sostituire l’Onu con un’organizzazione delle democrazie risale a Bill Clinton. A Washington e in Europa si riteneva che l’espansione del commercio globale avrebbe “democraticizzato” il pianeta, e si riservava ai soli stati canaglia un trattamento più duro: l’esportazione della democrazia con le armi. Tutto questo è ormai tramontato. Cina e Russia ritengono di avere sistemi politici migliori e non si sentono affatto inferiori al modello liberal-democratico.
È in corso una lotta di influenze ma la storia ci apprende che i regimi autoritari non sono in grado di analizzare il reale stato di una democrazia. Le voci sul declino occidentale girano a Pechino e a Mosca da almeno due decenni con effetti di auto-propaganda. L’attacco russo all’Ucraina è frutto di tale errata valutazione. L’occidente non deve tuttavia sentirsi troppo al sicuro: tutto può accadere nel mondo fluido e la casa comune rimane l’Onu: meglio riattivare il multilateralismo per garantire regole che evitino il conflitto.
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