L’Italia non è stata esclusa solo nel recente incontro di Parigi sulla strategia antiterrorismo. Era stata deconsiderata anche durante le giornate sulla sicurezza globale di Monaco 2020, passate a febbraio quasi sotto silenzio a causa del Covid-19.

Il rapporto ufficiale dell’evento – il più importante appuntamento annuale sulla strategia di sicurezza in Europa – pur affrontando le crisi di Libia, delle migrazioni e del Mediterraneo in generale, non cita nemmeno una volta l’Italia.

Un’assurdità da parte del team tedesco che si definisce uno dei migliori al mondo. È vero che gli ultimi attentati sono avvenuti in Francia e Austria ma è altresì noto che in termini di impegno politico, di intelligence e militare, l’Italia è molto più esposta di tanti altri paesi europei (certamente della Germania), ha molte più capacità e di conseguenza avrebbe molto più da dire.

Trascurare il nostro paese in tale ambito non è una svista ma un errore: non c’è volontà di condividere dati e informazioni. Parigi deve riflettere sul fatto che non si può chiedere a Roma di partecipare alla lotta antiterrorista in Africa (operazione Takouba in Mali) per trascurarla in Europa.

Copyright 2020 The Associated Press. All rights reserved

Assenza di occidente

Le giornate di Monaco hanno avuto un titolo significativo: Westlessness cioè assenza di Occidente. In un clima quasi crepuscolare si è svolta una nuova versione del mantra sul declino dell’Occidente di Spengler, morto proprio a Monaco nel 1936.

Parlare di fine dell’occidente davanti a russi, turchi, indiani o cinesi è stata una scelta a metà tra la sfida e l’azzardo. Tale “assenza” rappresenta un rischio, una minaccia o una scelta? Il clima dei dibattiti è stato burrascoso.

In una sala pensosa o scettica, il segretario di stato Usa, Mike Pompeo ha affermato la sua visione: «L’occidente sta vincendo» e imponendo i suoi valori. Macron si è pronunciato per una tesi opposta. Quasi tutti hanno riconosciuto la crescente incapacità dell’occidente di modellare l’ordine internazionale secondo i propri principi ma non tutti hanno ammesso di vedere in ciò un arretramento.

Per alcuni si tratterebbe di un’evoluzione auspicabile: dopo tanti danni non è meglio che l’occidente faccia fare ad altri? Ma quali altri? Non sfugge nemmeno al più sovranista che i modelli alternativi sono accentrati sull’interesse nazionale di un paese solo o, peggio, di un’etnia, religione o classe. Malgrado i suoi difetti e ipocrisie, l’occidente propone valori e modelli che possono favorire tutti: alla base dei suoi principi rimane uno spirito universale insostituibile.

Viviamo in un mondo in cui i governi occidentali non riescono più a gestire i cambiamenti degli altri. Una volta ci provavano sempre, talvolta ci riuscivano. In ogni stato del pianeta c’era sempre un partito filo-occidentale, europeista o filo-americano. Oggi tutto ciò è cambiato anche a causa della fluidità geopolitica attuale.

L'ultimo impulso occidentale

L’ultimo impulso dell’occidente è dato fra gli anni Novanta e l’inizio del millennio ed è avvenuto in due versioni. La prima fu quella democratica di Clinton e dei suoi alleati: una “terza via” che affermava la supremazia di un tipo specifico di liberal-democrazia composta da “diritti e mercato”.

Tale tesi reagiva all’offensiva degli asian values degli anni Ottanta lanciata dalle tigri asiatiche, da Giappone e Singapore in particolare, fallita e sepolta sotto la catena delle crisi finanziarie asiatiche del ‘97-’98.

In realtà fu solo la prova generale in attesa della Cina. Per mettere alle corde tutti gli altri l’amministrazione Clinton giunse a proporre una nuova formula internazionale per sostituire una Onu ormai obsoleta: la nuova Organizzazione delle democrazie.

Furono buone intenzioni senza fondamento: in realtà nel corso di quel decennio d’oro per l’economia occidentale, la spietata macchina del libero mercato distruggeva il tessuto sociale di Russia ed ex affiliati e insegnava all’Asia la resilienza. Risultato: l’aumento esponenziale del risentimento anti-occidentale.

Il secondo tentativo fu quello repubblicano di marca Bush junior: la guerra contro i rogue states, in primis l’Iraq di Saddam (ma mirando all’Iran). Fu una manovra più rozza e delimitata, ma la tesi era la stessa: esportare la democrazia.

A quel punto però gli europei avevano già abbandonato la sfida: gli Usa restavano sostanzialmente soli. I più espliciti furono i francesi, da Chirac a Hollande, dando così la cifra dello scetticismo europeo.

Unico leader occidentale a saltare senza fare una piega da Clinton a Bush (cioè dal primo al secondo tentativo) fu Tony Blair. Da allora gli restò appiccicata addosso l’etichetta di bliar: gioco di parole tra Blair e bugiardo. Anche questa linea repubblicana ebbe come risultato l’aumento del rancore anti-occidentale soprattutto nel mondo arabo-islamico.

Così al volgere del millennio l’occidente in festa (e solo un po’ preoccupato dal bug) non si accorse che attorno a sé cresceva l’odio, anche se in forme diverse. I disastri dei conflitti senza vittoria in medio oriente, così come quelli in altre aree compresi Siria e Sahara, l’estenuante guerra contro il terrorismo che non termina mai: tutti gli scenari hanno finito per favorire la resilienza di altri sistemi e modelli, adottati in paesi che non volevano cedere alle sirene occidentali.

Per loro si sono creati spazi da occupare e nuove opportunità. Li abbiamo anche favoriti: nel 2000 Clinton fece entrare la Cina nell’organizzazione mondiale per il commercio, quando nemmeno la Russia era ancora membro.

La globalizzazione economica annoda tutti in un’inestricabile matassa per cui oggi è molto difficile escludere qualcuno senza subirne le conseguenze. Ecco l’errore liberale: pensato come indissolubilmente associato alle democrazie, il libero mercato è divenuto il miglior alleato delle autocrazie. Putin ha potuto così affermare che il liberalismo è finito e la Cina può entrare a casa degli occidentali usando le loro chiavi.

Tra gli esperti si discute: per alcuni si tratta di un’evoluzione obbligata; altri additano errori pericolosi come il cedere ai cinesi sul 5G e così via; per altri la causa risiede nella divisione tra Europa e Usa.

La crisi del multilateralismo

Anche se le conseguenze negative dell’attuale e inaccettabile stato della sicurezza collettiva sono evidenti a tutti, nessuno ha la forza di muoversi da solo. La crisi del multilateralismo (inizialmente innescata dagli occidentali stessi) ora si paga: anche quando avevano maggior potere di influenza, americani ed europei hanno sempre avuto bisogno di altri appoggi. Dentro o fuori il quadro dell’Onu le coalizioni dei volenterosi sono la norma.

Per questo l’accusa a papa Francesco di essere anti-occidentale è sbagliata, casomai il papa è post-occidentale. Critica il liberismo capitalista come «pensiero povero, ripetitivo che propone sempre le stesse ricette» e sostiene che occorre partire dal bisogno dei poveri e degli ultimi, persone e popoli. Bergoglionomics: paradossalmente l’unica ricetta sul tavolo.

In occidente forse siamo a un bivio: o si salva la democrazia o il sistema liberista. Quest’ultimo ha avuto grandi meriti ma è ora giunto alla fine del suo ruolo storico e mostra i suoi limiti. È necessaria una grande riforma basata sulle esigenze dell’ambiente, la limitazione delle risorse e la lotta contro le diseguaglianze.

La litania “ci vuole più crescita” è ormai vuota: il mercato da solo non ce la fa. La crescita esponenziale del nazionalismo nel mondo è l’altra maggiore causa dell’immobilismo della comunità internazionale. Non si riesce più a prendere iniziative multilaterali per la stabilità a garanzia dello status quo in termini di frontiere.

Si tratta in realtà di una vecchia storia che già conosciamo: più nazionalismo significa più crisi incontrollate e anarchia globale. Uno scenario simile portò alla Prima e alla Seconda guerra mondiale. Si stanno moltiplicando ovunque pericolosi tentativi di spostare confini fissi da decenni, se non da sempre.

Allo stesso tempo è in corso una proliferazione del riarmo e del commercio di armi. Tra europei pare ancora difficile evitare narcisismi o solipsismi. C’è da sperare che la presidenza Biden segni un ritorno di protagonismo degli Usa, unici in grado di rimettere ordine dentro un occidente sfaldato.

© Riproduzione riservata