Bergoglio è il primo pontefice a fare visita al paese. Oggi il saluto con le autorità irachene. Lo ha accolto il presidente del consiglio Al-Kadhimi. Durante la visita al palazzo del presidente della Repubblica ha detto: «Tacciano le armi. Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque. Cessino gli interessi di parte» e ha chiesto di fermare le violenze: «Basta estremismi, fazioni, intolleranze»
- A mezzogiorno in punto, l’aereo con a bordo papa Francesco è atterrato in una Baghdad blindatissima. Ad accogliere il primo pontefice della storia nel paese è stato il primo ministro Al-Kadhimi.
- Il papa ha fatto visita al palazzo del presidente della Repubblica e ha tenuto un discorso davanti alle autorità: «Tacciano le armi! Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque!». E ha puntato il dito sulla corruzione.
- C’è grande attesa per la visita al santuario di Najaf, la città sacra dei musulmani sciiti dopo la Mecca e Medina. Lì papa Francesco incontrerà il Grande Ayatollah Al-Sistani.
A mezzogiorno in punto, l’aereo con a bordo papa Francesco è atterrato in una Baghdad blindatissima. Ad accogliere il primo pontefice della storia nel Paese è stato Al-Kadhimi, nominato Primo ministro della Repubblica d’Iraq il 7 maggio scorso. L’allerta è molto alta: lo dimostra la nota diramata dall’ambasciata Usa a Baghdad nelle ultime ore, che ha reso nota la minaccia tangibile di attacchi missilistici o via drone. Il papa giunge in Iraq come “pellegrino” e “penitente”, consapevole dei rischi, ma anche della necessità di germinare semi di speranza in una terra “ancora ferita” per ammissione dello stesso presidente della Repubblica irachena.
Il papa nella Green Zone
Dopo il breve incontro privato nella sala dell’aeroporto, papa Francesco ha incontrato il presidente della Repubblica d’Iraq, Barham Ahmed Salih Qassim, nel Palazzo della Repubblica, attraversando quelle stesse strade dove sedici anni fa ha perso la vita l’agente Nicola Calipari nell’operazione che puntava a liberare la giornalista italiana Giuliana Sgrena. L’ingresso del papa nell’architettura di regime della “Green Zone”, un tempo il palazzo presidenziale di Saddam Hussein, poi target delle guerriglie irachene, mostra i primi passi di un cammino lento ma possibile: «Nonostante le sfide che il nostro paese ferito sta vivendo, nonostante la violenza e la tirannia, gli iracheni sono orgogliosi di aver vissuto in terre dove si vive gli uni accanto agli altri, gli iracheni sono orgogliosi della sua visita» ha detto il presidente della Repubblica rivolgendosi a papa Francesco.
La condanna del papa
Sono passati trent’anni dal 16 gennaio del 1991, quando Washington lanciò l’operazione “Tempesta del deserto” sferrando il primo attacco aereo sulla capitale irachena. Seguirono tre ondate di bombardamenti in meno di 24 ore a cui soltanto l’allora deputato socialista Bernie Sanders si oppose davanti al Congresso americano compatto. In quei giorni, anche il consiglio ministeriale dei nove Paesi dell’Unione dell’Europa occidentale invitò a “restaurare la sovranità e integrità del Kuwait, e non fare guerra al popolo iracheno”. Malgrado i decenni Baghdad, l’antica città nata dentro un cerchio perfetto, ha rivelato le conseguenze estreme della guerra che si veste d’ideologia, come mostra la moschea di Umm al-Ma’arik, eretta per celebrare la vittoria di Hussein nella Guerra del Golfo, con i suoi minareti che ricordano la forma di kalashnikov e missili. «Tacciano le armi! Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque! Cessino gli interessi di parte, quegli interessi esterni che si disinteressano della popolazione locale. Si dia voce ai costruttori, agli artigiani della pace! Ai piccoli, ai poveri, alla gente semplice, che vuole vivere, lavorare, pregare in pace. Basta violenze, estremismi, fazioni, intolleranze!» ha tuonato papa Franceasco davanti alle autorità riunite nel palazzo della Repubblica. Nelle sue parole ritorna l’eco delle dure parole pronunciate nel Sacrario militare di Redipuglia il 13 settembre 2014, con cui prese di mira gli imprenditori delle armi «pianificatori di terrore». Con la dura condanna della guerra, che pure prende le mosse dal netto «Jamais plus la guerre» pronunciato da Paolo VI al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite nel 1965, papa Francesco vuole ricordare che peggio della guerra ci sono solo i dopoguerra, i tempi dove la morte si cronicizza e ferma ogni istanza di ricostruzione. Anticipando il discorso del pontefice, il presidente Qassim ha riconosciuto con amarezza i tribalismi che hanno alimentato le divisioni etniche, menzionando le «ferite profonde che vanno rimarginate in Iraq» e il lavoro verso «il rispetto dei diritti umani e la giustizia sociale» perché altrimenti «siamo tutti perdenti in questo caos nero».
Contro la corruzione
Pellegrino in una terra da ricostruire, il papa ha poi sottolineato che «dopo una crisi, non basta ricostruire, bisogna farlo bene: in modo che tutti possano avere una vita dignitosa. Da una crisi non si esce uguali a prima: si esce o migliori o peggiori. In quanto responsabili politici e diplomatici, siete chiamati a promuovere questo spirito di solidarietà fraterna […]. È necessario contrastare la piaga della corruzione, gli abusi di potere e l’illegalità, ma non è sufficiente. Occorre nello stesso tempo edificare la giustizia, far crescere l’onestà, la trasparenza e rafforzare le istituzioni a ciò preposte. In tal modo può crescere la stabilità e svilupparsi una politica sana, capace di offrire a tutti, specialmente ai giovani – così numerosi in questo Paese – , la speranza di un avvenire migliore». Le parole di papa Francesco si uniscono a quelle dei giovani che prima della pandemia manifestavano per la lotta alla corruzione inneggiando al riscatto dell’Iraq partendo da un cambiamento della classe politica. Secondo le fonti ufficiali, dal 2004 sono spariti dai fondi statali circa 450 miliardi di fondi pubblici, come ha più volte denunciato il quotidiano The New Arab.
Un messaggio al mondo
Nel suo discorso papa Francesco si rivolge anche al di fuori dall’Iraq, sia ai cristiani iracheni nostalgici fuggiti in Europa e nel mondo che alle forze politiche che lavorano per costruire la pace: «Ringrazio gli atati e le organizzazioni internazionali, che si stanno adoperando in Iraq per la ricostruzione e per provvedere assistenza ai rifugiati, agli sfollati interni e a chi fatica a ritornare nelle proprie case, rendendo disponibili nel paese cibo, acqua, alloggi, servizi sanitari e igienici, come pure programmi volti alla riconciliazione e alla costruzione della pace» dice il papa, perché se la pace è un messaggio universale, vale tanto per gli iracheni quanto per il resto del mondo: «Auspico che le nazioni non ritirino dal popolo iracheno la mano tesa dell’amicizia e dell’impegno costruttivo, ma continuino a operare in spirito di comune responsabilità con le autorità locali, senza imporre interessi politici o ideologici».
Nelle ferite dei cristiani iracheni
Dopo il discorso nel Palazzo presidenziale, papa Francesco ha varcato la soglia della cattedrale di Sayidat al-Nejat, sede dall’Arcieparchia siro-cattolica di Baghdad, e bersaglio dell’attacco terroristico del 31 ottobre 2010, in cui morirono 48 persone per mano di Al Qaeda. Il New York Times definì l’attacco «il peggior massacro di cristiani iracheni dall’inizio della guerra nel 2003», l’apice dell’esodo drammatico dei cristiani che aveva preso forma dalla fine di Saddam Hussein. I primi attacchi alle chiese di sant’Elia a Baghdad e sant’Efraim a Mosul poco dopo la morte del dittatore, infatti, sancirono la fine della la controversa protezione dei cristiani da parte di Tareq Aziz.
Undici anni dopo, papa Francesco tira le fila di quegli anni difficili, ringraziando la chiesa locale che non ha abbandonato il suo popolo: «Negli ultimi decenni, voi e i vostri concittadini avete dovuto affrontare gli effetti della guerra e delle persecuzioni, la fragilità delle infrastrutture di base e la continua lotta per la sicurezza economica e personale, che spesso ha portato a sfollamenti interni e alla migrazione di molti, anche tra i cristiani, in altre parti del mondo. Vi ringrazio, fratelli vescovi e sacerdoti, di essere rimasti vicini al vostro popolo» ha detto.
Nessun passato senza presente
Per Francesco la pagina del passato ha senso solo se letta nel presente. Rivolgendosi ai vescovi locali, ha usato la metafora del virus per ammettere «quanto sia facile essere contagiati dal virus dello scoraggiamento che a volte sembra diffondersi intorno a noi. Eppure il signore ci ha dato un vaccino efficace contro questo brutto virus: è la speranza che nasce dalla preghiera perseverante e dalla fedeltà quotidiana al nostro apostolato. Con questo vaccino possiamo andare avanti con energia sempre nuova, per condividere la gioia del Vangelo, come discepoli missionari e segni viventi della presenza del regno di Dio, regno di santità, di giustizia e di pace». La metafora del virus, scelta dal pontefice già nella preghiera ecumenica per la pace lo scorso ottobre in Campidoglio, mette in luce le resistenze di un corpo ecclesiale che, seppure esito di momenti difficili, andrebbero allentate: «Siate pastori, servitori del popolo e non funzionari di stato. Sempre nel popolo di Dio, mai staccati come se foste una classe privilegiata. Non rinnegate questa “stirpe” nobile che è il santo popolo di Dio».
Contro ministri manager
Il discorso del papa è esortativo, ma tocca i nervi scoperti di una comunità che, di fronte alle difficoltà, rischia la tentazione di un approccio manageriale: «Siate particolarmente vicini ai vostri
sacerdoti. Che non vi vedano come amministratori o manager, ma come padri, preoccupati perché i figli stiano bene, pronti a offrire loro sostegno e incoraggiamento con cuore aperto […]. Sappiamo che il nostro servizio comporta anche una componente amministrativa, ma questo non significa che dobbiamo passare tutto il nostro tempo in riunioni o dietro una scrivania. È importante uscire in mezzo al nostro gregge e offrire la nostra presenza e il nostro accompagnamento ai fedeli nelle città e nei villaggi» ha sottolineato il papa. Il riferimento è, ancora una volta, all’esodo che ha colpito i cristiani iracheni con l’avanzata dell’Isis nel 2014, che spinse anche molti pastori ad abbandonare le parrocchie. Prima del 2003 in Iraq si contavano un milione e 200mila cristiani, crollati bruscamente a 300mila dopo la guerra di Bush. Dieci anni dopo, l’Isis ne ha dimezzato la presenza con il risultato che oggi, nei luoghi in cui il cristianesimo era nato, i cristiani sono quasi scomparsi. Indossando una stola ricamata dalle donne di Qaraqosh, città delle persecuzioni cristiane più accese, il pensiero di Francesco è andato di nuovo ai più giovani: «Qui infatti non c’è solo un inestimabile patrimonio archeologico, ma una ricchezza incalcolabile per l’avvenire: sono i giovani! Sono il vostro tesoro e occorre prendersene cura, alimentandone i sogni, accompagnandone il cammino, accrescendone la speranza».
Blindato nel santuario
Il papa si è stabilito presso la nunziatura apostolica nel distretto di Karrada, il quartiere dell’alta borghesia irachena e tra i principali distretti della comunità cristiana di Baghdad. C’è grande attesa per la visita al santuario di Najaf, la città sacra dei musulmani sciiti dopo la Mecca e Medina. Lì papa Francesco incontrerà il Grande Ayatollah Al-Sistani. Figura di riferimento per gli sciiti. Non è prevista la firma di una dichiarazione congiunta come il Documento sulla fratellanza universale sottoscritto con i sunniti ad Abu Dhabi due anni fa. Come confermato a più riprese da fonti vicine ad Al-Sistani, l’incontro sarà a porte chiuse.
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