- Sfida al ballottaggio tra il populismo di destra di Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore degli anni Novanta, e il chavismo andino di Pedro Castillo. I sondaggi indicano un margine assai stretto
- Dopo anni ruggenti di crescita economica, la corruzione dilaga e la pandemia è la più virulenta al mondo. Triplicati i dati ufficiali sui decessi Covid-19 per incongruenze statistiche
- Il recupero della candidata di centrodestra, al terzo tentativo di vincere la presidenza, e il tentativo di Castillo di moderare le sue posizioni per non spaventare il ceto medio urbano
Il peruviano più famoso al mondo, lo scrittore Mario Vargas Llosa, sostiene che quelle di domenica sono le elezioni presidenziali più importanti della storia del suo paese. «Non una scelta tra candidati, ma tra due sistemi”, dice. Detto questo, l'entusiasmo politico è un'altra cosa, soprattutto per un uomo sanguigno come lui. Il Nobel per la letteratura 2010 lo ammette. «Occorre votare per il male minore, purtroppo».
Un “turiamoci il naso” simile a quello che lui stesso espresse nel 2011 quando disse che il ballottaggio per le presidenziali di quell'anno era addirittura "come scegliere tra il cancro terminale e l'Aids”. Oggi ci siamo quasi.
Povero Perù, paese di profonda bellezza e storia intensa. Devastato dal Covid-19 come nessuno al mondo e disilluso dalla politica, al punto di portare al ballottaggio due candidati ripudiati da gran parte degli elettori. I due mali minori - a secondo dai punti di vista - si chiamano Pedro Castillo e Keiko Fujimori.
Al primo turno lo scorso aprile hanno ricevuto appena il 18,9 e il 13,4 per cento dei voti rispettivamente. In una competizione dove ben diciotto candidati si sfidarono e nessuno entusiasmò più di tanto. Quando è così il sistema di voto a due turni porta al paradosso che due forti minoranze si ritrovano al ballottaggio e vince il meno peggio. O meglio, il meno detestato. Non stupisce che alla vigilia del rush finale i sondaggi diano un margine assai risicato tra i due. Buona parte dell'elettorato se ne starebbe volentieri a casa.
Ed è una anomalia in Perù, dove esiste la tradizione di figure politiche in grado di suscitare emozioni e trascinare le folle. Per limitarsi agli ultimi decenni, Alan Garcìa negli anni Ottanta, giovane socialista che si guadagnò notorietà internazionale e vari appoggi; Alberto Fujimori, padre di Keiko, il tecnocrate di origini giapponesi che poi si trasformò in dittatore; Alejandro Toledo, che lo sfidò e riuscì ad abbatterlo nelle piazze, poi primo presidente con gli occhi da indio in un paese dove il sangue degli Incas scorre nell'80 per cento della popolazione ma avevano sempre comandato i bianchi.
Tutti e tre, in un modo o nell'altro, finiti male. Fujimori è in galera da molti anni con accuse di genocidio, Toledo in fuga dalla giustizia per corruzione, Garcia si è addirittura sparato un colpo alla testa per non finire dentro, sempre per mazzette. Senza contare altri due ex presidenti, finiti di recente nel mirino della giustizia.
A questo punto non credere a nessuno e trascinarsi stancamente al seggio appare comprensibile. Ma qualcuno, in una democrazia, bisogna pure che prenda le redini del paese per scelta popolare.
L’ultima versione del populismo
Quel che invece non ha nulla di anomalo in questo continente è l'eterna trasformazione dei populismi, sia a destra che a sinistra, e il loro riproporsi con volti diversi ma metodi di cattura di consensi sempre simili. In questo senso la sfida tra Castillo e Fujimori è esemplare, ed è ciò che manda in crisi un liberale convinto come Mario Vargas Llosa (anche lui, a dire il vero, un pentito di lunga data del terzomondismo novecentesco).
L'idea che una volta agguantato il potere per unzione popolare sovrano rispettare le regole della democrazia sia un punto di vista, e mollare la poltrona quando è il momento un puro optional. E così Pedro Castillo, in odore di chavismo - populismo di sinistra che crede al socialismo del XXI secolo - e Keiko Fujimori, figlia di un signore che chiuse le porte del Congresso a un anno dal suo insediamento, hanno dovuto firmare un documento, richiesto dalla società civile, nel quale si impegnano a lasciare il potere alla fine dei cinque anni di mandato.
Quindi non si faranno venire tentazioni di promuovere una rielezione (in Perù non prevista dalla Costituzione) oppure peggio di usare la forza del potere per non tornare a casa. Non proprio un esempio di solidità delle istituzioni democratiche, sia pure in un paese che nella storia ha avuto meno golpisti e dittatori dei suoi vicini.
L’elezione per fermare i processi
Su Keiko Fujimori, per cominciare, non ricadono solo le colpe del padre. E' accusata da anni di corruzione, per aver ricevuto finanziamenti illeciti per le sue due campagne elettorali precedenti, nel 2011 e 2016, entrambe perse. Sulla candidata di centrodestra al terzo tentativo pende una richiesta di 30 anni di prigione per riciclaggio, organizzazione a delinquere e ostruzione alla giustizia.
Se eletta, i suoi processi si sospenderanno, ma non quelli a diversi esponenti del suo schieramento politico, compreso suo marito.
Sempre in caso di sua vittoria, appare scontata una amnistia per il padre, ormai 82enne e malato, ma rispetto ai tentativi precedenti questo non sembra l'handicap principale.
La questione è se al Perù serva un tecnopopulismo di destra come quello che la Fujimori dovrebbe incarnare. Quello paterno degli anni Novanta privatizzava con una mano, ma mandava a massacrare campesinos sulle Ande con un'altra, o a sterilizzare con la forza le donne indigene colpevoli di fare figli in eccesso. Hanno avuto più successo nel combattere la povertà e a rilanciare l'economia i governi successivi, e grazie anche al boom delle esportazioni di commodities per una quindicina di anni il Perù è stato una specie di tigre sudamericana, con tassi di crescita stabile nell'ordine del 5 per cento all'anno. Poi tutto si è fermato, soprattutto per l'inusuale virulenza del Covid.
E' un dato di questi giorni che con oltre 180.000 decessi su una popolazione di 32 milioni di abitanti, il Perù ha raggiunto la peggiore mortalità al mondo dovuta alla pandemia, superando l'Ungheria. E' un numero rivisto ufficialmente dalle autorità, dato che quello precedente di poco meno di 70.000 vittime era incompatibile con il boom dei decessi.
Il populismo di sinistra
Altrettanto difficile capire che volto avrebbe il populismo di sinistra incarnato da Pedro Castillo, il maestro elementare spuntato dal nulla, e arrivato a vincere il primo turno con una rimonta del tutto imprevista. Castillo arriva alla notorietà come paladino contro la corruzione, parla di economia mista, aumento del ruolo dello Stato, investimenti pubblici e della necessità di nazionalizzare alcune delle ricchezze del paese.
Raccoglie gran parte dei consensi sull'altopiano povero, mentre a Lima e sul resto della costa sono sicuri che – nonostante le promesse – con lui il Perù finirebbe come il Venezuela, una economia in ginocchio a causa delle illusioni stataliste e marxiste. Castillo aveva un margine comodo sulla Fujimori dopo il primo turno, ma oggi i sondaggi indicano una quasi parità, dentro il margine di errore statistico. Grazie proprio alla campagna di paura scatenata contro il rischio chavista.
Nell'ultimo dibattito tv, Castillo ha accentuato il suo profilo moderato, cercando di recuperare terreno, ma potrebbe essere tardi. La rimonta della Fujimori è notevole.
Se la differenza tra i due dovesse confermarsi così stretta, è possibile che ci vorranno diversi giorni, la prossima settimana, prima della proclamazione del vincitore.
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