Un commento, anche critico, segnala interesse. Nella scorsa edizione di Scenari il professor Francesco Strazzari ha dedicato un lungo articolo al documento finale prodotto dal Comitato di esperti sulla politica estera del Partito democratico, che ho il piacere di presiedere e che è stato promosso dalla responsabile esteri del partito Lia Quartapelle.

Tra i nostri principali obiettivi c’è proprio quello di aprire una discussione pubblica e partecipata sulla politica estera del paese e sull’approccio del partito: mi sento quindi in primo luogo di ringraziare il professor Strazzari per aver contribuito a questo dibattito, e a Scenari per ospitarlo.

Il documento conclusivo, che è disponibile online sul sito del Partito democratico, è il frutto di un percorso di riflessione durato più di un anno che ha coinvolto autorevoli rappresentanti della comunità politica e scientifica. Lo scopo non era redigere un piano strategico di politica estera o una piattaforma di valori, che, per loro natura, spettano a gruppi di lavoro dalla natura più eminentemente politica piuttosto che tecnica.

Il Comitato ha invece tentato di identificare alcune linee guida che permettessero di conciliare i valori che caratterizzano una visione democratica e progressista delle relazioni internazionali con gli interessi nazionali che, in determinati casi a volte solo contingenti, con quei valori possono confliggere, creando contraddizioni politicamente difficili da sostenere.

Dicotomie

A tal fine, il Comitato ha articolato la discussione su cinque dicotomie con cui il partito si è confrontato negli ultimi anni: quelle tra integrazione sovranazionale e sovranità, tra apertura e chiusura, tra democrazia e autoritarismo, tra multilateralismo e politica di potenza, tra globalizzazione ed esclusione.

Il tentativo è stato quello di indicare un approccio nuovo e di identificare possibili linee rosse sulla base delle quali compiere scelte di politica estera che contemperino gli interessi italiani con i valori di riferimento del partito.

Ad esempio, l’europeismo è uno dei valori fondanti del Partito democratico poiché rappresenta il viatico più efficace per realizzare gli ideali di pace, solidarietà e democrazia nel continente, a maggior ragione oggi alla luce del conflitto in Ucraina.

Tuttavia, non si possono minimizzare in maniera acritica le problematiche e le difficoltà del processo di integrazione, che possono colpire specifici segmenti della società italiana. Quale potrebbe essere quindi un punto di caduta progressista che consenta di conciliare l’aspirazione a una maggiore integrazione con la salvaguardia, ove necessario, di determinati interessi nazionali?

La via d’uscita ci pare essere quella della promozione di un concetto di sovranità europea condivisa, in base al quale lavorare per massimizzare i vantaggi dell’integrazione a favore dei nostri interessi prioritari in materie selezionate in settori quali l’economia, la migrazione, l’energia e la difesa, per vederli tutelati su una scala adeguata. Questo garantirebbe, oltretutto, una prospettiva europea sempre più condivisa tra la cittadinanza.

In maniera analoga, abbiamo affrontato il conflitto potenziale tra apertura e chiusura, in senso lato, dello stato: dei suoi confini, della sua economia, del suo welfare.

Il problema, che molte forze progressiste hanno largamente ignorato per sposare approcci fideistici alla globalizzazione, è emerso con forza negli ultimi anni e ha alimentato un dibattito sulla necessità di riappropriarci di un certo grado di autonomia strategica. Questo non significa però accettare la logica dell’autarchia o del protezionismo.

Per superare questa dicotomia, la proposta politica che ne deriva è quella di un’apertura controllata sulla base di regole d’ingaggio di natura politica, rispettose del diritto internazionale, che ci permettano di definire settori e modalità di collaborazione sulla base delle priorità di una certa comunità e di un modello socioeconomico di sviluppo. Il punto centrale è quindi costituire una capacità di gestione dell’interdipendenza che sappia offrire risposte nazionali ed europee alle attese dei cittadini, tutelarne la sicurezza (intesa in senso ampio) e assicurare l’integrità dei processi democratici da eventuali intrusioni esterne.

Solo così potremo dare una risposta alle esigenze di protezione che arrivano dai territori e dai cittadini senza abbandonare una narrativa di apertura, rispondendo alle insicurezze di chi è preoccupato dal mondo che cambia.

La critica

La principale critica che viene mossa dal professor Strazzari è che il documento non prende in dovuta considerazione la dimensione di genere o i movimenti sociali e politici.

Tuttavia, come ho cercato di spiegare, il documento muove dal tentativo di aprire nuove vie concettuali nella discussione di dimensioni strutturali delle relazioni internazionali, quali la democrazia o la globalizzazione, piuttosto che analizzare il ruolo di attori e processi.

Donne, giovani, movimenti sono certamente parte integrante di un processo partecipato e inclusivo che viene espressamente posto dal documento alla base della costruzione di uno spazio pubblico europeo, di un nuovo multilateralismo inclusivo al di là di quello formalista tra gli stati nazionali, del sostegno alla democrazia.

E mi preme sottolineare quanto il metodo stesso adottato per l’elaborazione sia stato improntato il più possibile all’inclusività, con una composizione paritaria tra donne e uomini, un rinnovamento significativo in termini anagrafici e profili differenti in termini di expertise.

Vero è che il documento è, per sua natura, selettivo e non inclusivo dal punto di vista tematico. Del resto, l’attuale sistema internazionale è caratterizzato da molte crisi interconnesse (si parla appunto di policrisi, come scrive Adam Tooze) e in continua evoluzione, e questo richiede un costante ripensamento e aggiustamento.

Pertanto, auspichiamo che il dibattito si arricchisca di ulteriori commenti e suggerimenti e costituisca il canovaccio su cui intessere uno scambio di idee con le cittadine e i cittadini, con la società civile e con il mondo accademico oltre che con altri partiti progressisti europei.

La politica estera femminista – intesa non solo come ambito di discussione ma anche come metodo – può e deve trovare spazio nel prosieguo della nostra riflessione, insieme all’approfondimento su altre questioni dirimenti come la sicurezza umana, i diritti umani, l’ambientalismo, il rapporto tra tecnologia e diritti, l’informazione.

La proposta

Proprio per questo, abbiamo inserito nel documento anche una proposta di follow up, che si dovrebbe articolare in presentazioni e dibattiti nei circoli e in eventi pubblici, nell’elaborazione di documenti settoriali che definiscano in termini più concreti le opzioni politiche che il partito dovrebbe perseguire in materia di politica estera e, infine, nel rendere permanente, accrescendola, la comunità di esperti, per assicurare uno scambio regolare tra il partito e i centri che elaborano un pensiero in Italia e all’estero.

Per questo ci vuole ovviamente un tempo congruo, ma rientra pienamente nell’obiettivo di rinnovamento del partito che si è posto nell’attuale fase congressuale.

Anzi, colgo l’occasione per lanciare un vero e proprio appello alle candidate e ai candidati alla segreteria del partito: non lasciate cadere nel vuoto il lavoro fatto.

Le questioni affrontate dal documento sono intimamente legate alla natura stessa del Pd rinnovato che dovrebbe emergere dal Congresso nella fase costituente che si è appena aperta.

Il documento conclusivo del Comitato di esperti potrebbe quindi costituire un concreto contributo sui temi di politica estera e internazionale per il Manifesto dei valori e dei principi del partito, che vedrà la luce tra un paio di mesi.

© Riproduzione riservata