«Abbiamo ricevuto il supporto diretto per l’attacco dall’Iran». Con queste parole era già intervenuto Gazi Hamad, portavoce di Hamas, a confermare il respiro regionale dell’offensiva lanciata dalla Striscia di Gaza contro Israele.
La notizia poi è stata ulteriormente rafforzata dal Wall Street Journal, le cui fonti interne ad Hamas e Hezbollah hanno riferito che lunedì ci sarebbe stato un incontro a Beirut tra i loro rappresentanti e quelli di Teheran.
Nell’occasione, questi ultimi avrebbero dato luce verde per l’operazione “Alluvione al Aqsa”. I missili lanciati dal sud del Libano, così come il comunicato dai toni intransigenti rilasciato dal Qatar, sembrano effettivamente prospettare una mobilitazione delle forze regionali vicine all’Iran.
In presenza di un rapporto di forze asimmetrico, d’altronde, è tendenzialmente inverosimile che la parte militarmente più debole di un conflitto prenda una decisione di tale portata per ragioni esclusivamente interne e senza contare sul sostegno di attori esterni.
Ancor di più nel caso di Hamas e Israele, dove il primo non ha il controllo dello spazio aereo e marittimo, quindi dipende necessariamente da partner esterni – ostili al secondo – anzitutto per il rifornimento di armi e tecnologia a uso militare.
Come in ogni riflessione sul rapporto tra potere e violenza, pertanto, occorre interrogarci su quali siano state le ragioni che hanno indotto Hamas a compiere questo passo.
Risulta difficile credere che le restrizioni all’accesso all’area sacra di al Aqsa possano giustificare un attacco che potrebbe costare molto caro – in termini di vite umane, agibilità politica e danni economici – all’organizzazione terrorista palestinese. E quindi, almeno in relazione a quanto accaduto finora, chi sembra trarre vantaggi dalla situazione e che cosa sembra guadagnare?
Teheran potrebbe essere il regista dell’operazione. Sicuramente è interessato a far saltare il tavolo negoziale per la normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme e Riad, che viene considerato lo scenario conclusivo del processo avviato con la sigla degli Accordi di Abramo.
Non può che vedere come il fumo negli occhi, infatti, la possibilità che in medio oriente si compatti il fronte anti-iraniano. Meglio, invece, interagire con rivali, che restano a loro volta tali e che, dunque, continuano a disperdere le loro risorse politiche, diplomatiche e militari su più fronti.
Letto in questa chiave, l’attacco di Hamas costituisce un ostacolo ingombrante a tale processo, come confermato dal comunicato del ministero degli Esteri saudita che, per quanto meno duro di quello qatarino, riconduce comunque la recente escalation al «perpetrarsi dell’occupazione» israeliana.
Come riportato da Pietro Baldelli su Geopolitica.info, tuttavia, anche Gaza appare interessata a minare l’accordo israelo-saudita perché questo prevedrebbe – su richiesta del principe Mohammad bin Salman – un capitolo di nuove concessioni ai palestinesi.
La guida di al Fatah, pertanto, ne risulterebbe rilanciata, mettendo potenzialmente all’angolo Hamas. Al netto dei costi umani, militari ed economici dell’attacco, quindi, la sua ratio andrebbe ricercata nei vantaggi politici, oltre a quelli di prestigio, che l’organizzazione terroristica ne ricaverebbe.
Ponendo maggiore enfasi sulla spiegazione “locale”, piuttosto che su quella “regionale”, tuttavia, si potrebbe anche ipotizzare un assenso di massima all’attacco da parte delle autorità iraniane, eseguito però con un’intensità non necessariamente concordata.
In tal prospettiva, le dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti di Hamas potrebbero essere una mossa nella partita interna al “fronte iraniano”. Ovvero un tentativo di Gaza di “intrappolare” – così la teoria delle Relazioni internazionali definisce questa dinamica – Teheran chiamandola in causa come “mandante” dell’operazione al fine di esercitare su Gerusalemme una qualche forma di deterrenza in attesa della sua controffensiva.
Perché, occorre ricordarlo, Israele si è ufficialmente dichiarato «in guerra».
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