Fino a pochi anni fa i conservatori americani vedevano con sfavore iniziative volte ad aumentare i salari a livello statale. Adesso invece l’opinione pubblica d’area chiede a gran voce che aumentino le buste paga. Condizione però da applicare solo ai cittadini americani
Difficile trovare punti di contatto tra la California governata dall’iperprogressista governatore dem Gavin Newsom e la Florida guidata dall’arciconservatore Ron DeSantis. Uno però c’è. Entrambi gli stati prevedono un salario minimo ben più alto di quello previsto a livello federale, pari a 7,25 dollari all’ora, un livello che non viene toccato dal 2009, primo anno di presidenza di Barack Obama, un’altra epoca geologica dal punto di vista politico.
Ai tempi il partito repubblicano vedeva molto male iniziative che innalzassero la soglia a livello locale, perché si riteneva danneggiassero soprattutto il business, che doveva sobbarcarsi maggiori costi anche a livello fiscale. Oggi le cose stanno lentamente cambiando: in Florida soltanto tre anni fa lo stesso DeSantis tuonava contro la misura proposta a livello referendario che avrebbe gradualmente aumentato gli stipendi a quota 15 dollari l’ora, con motivazioni favorevoli sempre alle ragioni delle imprese.
Quest’anno invece l’aumento c’è stato il 30 settembre scorso, a quota 12 dollari, e nessuno se n’è accorto. Soltanto piccoli trafiletti nella cronaca locale del Sunshine State. A fare un conteggio, l’anno prossimo saranno ben ventidue gli stati che avranno un salario minimo e molti hanno al loro vertice esponenti conservatori, tra cui l’Ohio, il Missouri e il South Dakota. Anche se non è ancora uno standard diffuso, dato che molti stati del Sud governati dalla destra usano ancora la leva dei bassi salari per attirare investimenti economici, è un segno che la trumpizzazione del partito repubblicano, che ha portato all’autodefinizione del Gop come un «partito dei lavoratori americani», ha fatto presa nel profondo. E quindi anche se il salario più alto è in uno stato dem, quello di Washington, dove tocca la cifra record di 16 dollari orari (nella Capitale federale è ancora superiore, ben 17), l’opinione pubblica conservatrice sul tema si è allineata quasi totalmente alla controparte progressista.
Lo ha registrato lo scorso maggio un sondaggio elaborato dal think tank di sinistra Data for Progress, che ha registrato una sorprendente convergenza sul tema. Se per il 71 per cento dei democratici ci vogliono più di venti dollari all’ora per avere uno stile di vita senza preoccupazioni, oltre il 56 per cento dei repubblicani la pensa allo stesso modo. Difficile pensare a un altro argomento dove le posizioni dei poli opposti, sempre più lontane da decenni, convergono a questo modo. Un caso clamoroso è quello dell’Arkansas, dove il presidente Trump ha trionfato con il 62% dei consensi nel 2020 e l’attuale governatrice repubblicana Sarah Huckabee Sanders nel 2022 ha raccolto il 63% dei casi. Un’autentica roccaforte conservatrice, dunque. Eppure, nel 2018 la cosiddetta Proposition 5 che prevedeva l’aumento fino a 11 dollari orari entro il 2021 vinse in tutte le contee, anche quelle più rurali.
Segno che la proposta, scissa dal resto dell’agenda progressista, fa presa su un elettorato molto ampio. Anche per questo due senatori repubblicani, Mitt Romney dello Utah e Tom Cotton proprio dell’Arkansas, quest’anno hanno presentato un disegno di legge che dovrebbe portare proprio i salari federali a un minimo di 11 dollari all’ora. Con una condizione ben precisa: la misura sarebbe destinata ai soli cittadini americani e ai lavoratori regolari che possono provare attraverso controlli incrociati di essere in piena regola con il loro permesso di soggiorno. Una condizione che quindi rende il provvedimento indigesto ai dem, che vorrebbero difendere gli irregolari che lavorano principalmente nel settore agricolo e in quello alberghiero.
La norma presentata da Romney e Cotton, anche se difficilmente passerà in un Senato a maggioranza dem, porta a una nuova fase della politica americana dove le preoccupazioni dei lavoratori, anche quelli sindacalizzati, trovano ascolto presso entrambi i partiti. Non stupisce dunque che uno dei più grandi nemici sia del sindacato che del salario minimo, il miliardario Charles Koch, noto per le sue posizioni ultraliberiste, abbia deciso di sostenere Nikki Haley che ha una visione più tradizionale anche per quanto riguarda le politiche economiche. Una scelta che forse mostra come un certo tipo di donatore repubblicano appartenga ormai al passato.
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