La Premier League non prende posizione sul conflitto che in questi giorni insanguina il Medio Oriente. Le richieste avanzate affinché esprimesse solidarietà a Tel Aviv dopo l’attacco di Hamas sono rimaste inevase. E le pressioni sulla federazione non hanno ancora portato soluzioni.
Un silenzio che si fa pesante. Nei giorni che vedono incendiarsi il conflitto israelo-palestinese, la Premier League tace. La lega calcistica che per esposizione mediatica contende il primato globale alla NBA, lo spettacolo i cui protagonisti diventano dei testimonial del meglio e del peggio, qualsiasi cosa facciano, ha scelto il profilo basso (di più: assente) rispetto alla vicenda che sta insanguinando un’altra volta il Medio Oriente. E ciò avviene a dispetto delle pressioni che giungono dai club, ma anche dall’associazionismo ebraico, affinché fossero espresse solidarietà per Israele e una condanna per l’attacco di Hamas. E invece non è giunta alcuna presa di posizione. L’organizzazione guidata da Richard Masters rimane sulle sue. E cinicamente spera che le operazioni belliche si concludano prima possibile per non veder spiccare oltre la propria inazione. L’imbarazzo si è trasformato presto in irritazione, giunta ai vertici del governo britannico. Il primo ministro conservatore Rishi Sunak, fermo sostenitore di Israele, starebbe sollecitando il mondo del calcio a fare la sua parte con un’azione comunicativa forte. E poiché il capo del governo non può pressare più di tanto sulla Premier, che è pur sempre un’associazione composta da soggetti privati, prova a sensibilizzare la federazione. Ma sullo sfondo rimangono linee di frattura che sono soprattutto economiche, con le ricche e potenti proprietà arabe della Premier (i sauditi del Newcastle e gli emiratini del Manchester City) a fare da contrappeso rispetto alla solidarietà verso Israele.
Il pressing
La soluzione caldeggiata dal primo ministro sarebbe stata testimoniare solidarietà a Israele in occasione dell’amichevole fra la nazionale inglese e quella australiana, in programma stasera. Si prospettava di illuminare l’arco dello stadio di Wembley con una luce azzurra, colore che richiama la bandiera di Israele. Ma nella mattinata di giovedì questa ipotesi ha perso quota. Dalla FA hanno fatto sapere che troveranno un modo per testimoniare solidarietà allo stato ebraico colpito dall’attacco di Hamas, ma l’annuncio è accompagnato dalle polemiche sulla mancanza di analogo slancio verso la popolazione civile di Gaza, che adesso sta scontando la furia dell’esercito israeliano. E dentro questa strettoia, il calcio inglese si scopre profondamente fragilizzato proprio sul piano che nell’ultimo trentennio ha determinato la sua leadership globale: il grande talento nel produrre immagine e comunicazione. In questa circostanza gli inglesi hanno scoperto di non riuscire a dire e comunicare nulla. Attanagliati dalla paura di esprimere troppo o troppo poco, di non riuscire a valutare il saldo fra consensi e dissensi. Come se all’improvviso si fosse scoperto il lato oscuro del Modello Wimbledon: avere in casa propria i migliori e i più ricchi da ogni angolo del globo può comportare gravi problemi di scelta, se gli interessi di quei soggetti cominciano a confliggere fra loro.
Il caso Arsenal
Nel paese dove più che altrove è stata abbracciata la causa di Black Lives Matter, all’improvviso si scopre l’afasia. Alcuni club pressano la Lega affinché prenda una posizione, ma intanto evitano di esporsi. Sicché tocca ai singoli calciatori far sentire la propria voce. Ciò che determina anche contrapposizioni interne ai singoli club. Come è successo nel caso dell’Arsenal. Su Instagram il centrocampista egiziano Mohamed Elneny ha testimoniato solidarietà per il popolo palestinese, sostituendo la foto del profilo con un’immagine della bandiera della Palestina. Il gesto di Elneny è giunto a pochi giorni di distanza dall’esternazione del compagno di squadra Oleksandr Zinchenko, centrocampista ucraino, che sempre su Instagram ha espresso solidarietà a Israele e in conseguenza di ciò ha dovuto applicare restrizioni allo spazio dei commenti. Il club arsenalista incassa con imbarazzo e prova a mantenersi al di sopra delle parti. Ma i dirigenti arsenalisti hanno provato meno imbarazzo nel far portare sulla manica delle maglie lo sponsor “Visit Rwanda”, ben pagato con denaro pubblico versato dal presidente autocrate Paul Kagame, grande tifoso arsenalista. C’è un doppio standard per tutto e tutti, nel calcio d’Inghilterra.
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