L’unica ombra nel deserto è l’islam. Non si sentono più i canti dei monaci ma solo le nenie degli hanashid, i canti di guerra senza strumenti dei militanti jihadisti, cantati a cappella
- Una terribile rivolta che si nutre di tutto: dell'odio per lo sfruttamento, della derisione per il nazionalismo fallito, del rancore per la memoria del colonialismo, del senso di ingiustizia per una distribuzione delle ricchezze corrotta a vantaggio delle élite del sud.
- Questo jihad nero si è trapiantato dove nessuno pensava: tra le tribù del deserto nomadi e seminomadi transumanti. Poche regole e tanto rigore, ma soprattutto l’identificazione del nemico di sempre: ieri il colonizzatore, oggi il “crociato”.
- Dopo tanti anni di battaglie, nel Sahel si è come tornati indietro al periodo della colonizzazione.
Cova nel deserto una nuova rivolta, la rivolta delle rivolte, tinta come scrive Domenico Quirico, «del sapore dell'universale, un terribile bisogno di rinascere nelle sabbie calde del deserto. L'unica ombra nel deserto è l'islam». È rimasto solo l'islam. Non si sentono più i canti dei monaci ma solo le nenie degli hanashid, i canti di guerra senza strumenti dei militanti jihadisti, cantati a cappella come diremo noi. È l’unica forma di musica autorizzata dall’interpretazione rigorista della Sunna, la tradizione islamica dei detti e delle gesta del profeta.
Tale terribile rivolta si nutre di tutto: dell'odio per lo sfruttamento, della derisione per il nazionalismo fallito, del rancore per la memoria del colonialismo, del senso di ingiustizia per una distribuzione delle ricchezze corrotta a vantaggio delle élite del sud, là dove scorre tranquillo il grande fiume Niger, anzi la “boucle” del Niger, il ciclo continuo della fertilità che si estende dalla Guinea Conakry, al Mali, Niger, Benin per terminare la sua lunga corsa in Nigeria.
L’abisso tra nord e sud
Tutto ciò che sta a sud di tale enorme circolo ha una speranza di sviluppo, malgrado tutte le fragilità. Tutto ciò che sta a settentrione è un altro paese, un altro mondo, quello dove cova la rivolta, senza nascondersi: tanto si sa che gli occidentali difficilmente mettono i piedi in questo calderone di fuoco e sabbia.
Anche quando i media si divertono a parlare di mitiche operazioni come “deserto rosso” nei pressi del forte Madama in pieno Sahara poco a sud della frontiera con la Libia, tutti sanno che solo i legionari di una volta riuscivano a risiederci stabilmente. Oggi, grazie anche alla capacità di movimentare meglio le truppe, si fanno puntate repentine alla ricerca dei migranti più che delle ombre fugaci dei terroristi.
Resta solo l’illusione dei droni che attraversano i cieli alla ricerca di segni della rivolta, ma i combattenti sanno già come fare ad evitarli. Si mescolano ai traffici che solcano le piste desertiche, le compravendite legali o illegali di sempre che ora si nutrono delle opportunità globali come la cocaina trasportata dall’America Latina. Si nascondono tra i trasporti di migranti ma anche nelle carovane dei nomadi. Soprattutto si muovono di notte mentre durante il giorno restano immobili, parte del paesaggio immutabile del deserto.
Eppure il deserto è un brulicare di iniziative, spostamenti, rotte nascoste, approvvigionamenti. Da quando la guerra di Algeria degli anni Novanta prima, e la guerra di Libia del 2011 poi, hanno rotto ogni argine, un intenso scambio di uomini ed armi avviene tra le sponde del mare Mediterraneo e quello di sabbia.
Questo jihad nero si è trapiantato laddove nessuno pensava: tra le tribù del deserto nomadi e seminomadi transumanti. Ha copiato i loro usi e costumi, si è inserito nelle famiglie sposando donne del luogo, ha offerto il proprio aiuto per proteggere affari di ogni tipo. In cambio ha predicato un islam severo e rigido, che ben si attaglia a quella gente indurita dalla vita del deserto. Poche regole e tanto rigore, ma soprattutto l’identificazione del nemico di sempre: ieri il colonizzatore, oggi il “crociato”, sempre pronto ad annichilire l’islam eterno.
Ma gli stessi jihadisti hanno progressivamente aumentato le loro pretese, mettendosi contro la tradizione e i lignaggi che da quelle parti è la cosa più preziosa. Se vivi nel deserto, con legami distesi all’inverosimile e rapporti gracili, devi sempre poter dire chi sei e “a chi appartieni”.
Jihad nero e tuareg
Dopo un inizio in cui sembrava amichevole, anche il jihad nero ha rappresentato per quelle genti un nemico dell’unità del popolo, dividendolo secondo linee ideologico-religiose e separando le famiglie sulla base di un forsennato fanatismo. Lo si è visto nella guerra del 2012 quando i tuareg del Mali, sentendosi forti per l’appoggio di questo nuovo partner inatteso che raccoglieva combattenti in fuga dalla Libia, hanno attaccato lo Stato del Mali in nome della loro perenne rivendicazione di indipendenza.
Si sentivano forti ma sono bastate poche battaglie attorno alle città del nord (Kidal, Tessalit, Gao e Timbuctù), per far scoppiare le contraddizioni. Alle prime difficoltà i jihadisti hanno preso il comando, abbandonando l’agenda indipendentista tuareg e gettando la maschera: a loro non interessa l’Azawad indipendente – il mitico stato della transumanza nomade – ma lo stato islamico. Il disinganno tuareg è stato cocente ma ormai era troppo tardi, soprattutto perché i jihadisti arabi hanno avuto l’accortezza di nominare capo dei capi un tuareg di stirpe nobile.
Iyad ag Ghali, della tribù aristocratica degli ifoghas, tuareg maliano, è un personaggio noto alle cronache del deserto. Ribelle da sempre, era riparato con la famiglia in Libia nel 1973 e, come tanti altri, era stato reclutato nella legione islamica di Gheddafi. Ma non gli basta: si dice che all’inizio degli anni Ottanta, alla ricerca di nuove avventure eversive, sia in Libano con l’OLP di Arafat e venga evacuato assieme ai palestinesi.
Nel 1983 è in Ciad a combattere con i reparti libici nella fallimentare avventura nella striscia di Aozou (quella dell’accordo Mussolini-Laval). Nel 1985 prepara a Tripoli una nuova ribellione tuareg contribuendo alla nascita del Movimento popolare per la liberazione dell’Azawad. La rivolta inizia nel giugno del 1990 e dura sei anni, costellata da tregue, conflitti intestini tra le fazioni tuareg e negoziati con il governo, a cui Iyad non manca mai facendosi notare per la sua abilità e istruzione.
Dal 1996, dopo la pace definitiva, inizia a frequentare ambienti religiosi, in particolare predicatori radicali pakistani del tabligh, rito fondamentalista indiano fondato un secolo fa. Iyad si reca anche in Pakistan. All’inizio del millennio è ormai acquisito al fondamentalismo ma rimane ancora critico con il terrorismo e gli attentati. Partecipa alla trattativa per liberare alcuni occidentali rapiti dai primi gruppi armati jihadisti algerini in via di radicamento nel Sahel.
Nel maggio 2006 inizia una seconda breve rivolta tuareg in Mali a cui Iyad partecipa e che si chiude con gli accordi di Algeri del luglio 2006. Ma subito dopo, a dimostrazione che il paese si sta frammentando in un sistema di conflitti, scatta una terza rivolta nel novembre 2007 che dura a tutto il 2009. In questo caso Iyad non partecipa ed è anzi inviato come consigliere consolare del suo paese in Arabia Saudita. Ma i sauditi, sospettandolo di avere contatti con al Qaeda, lo espellono l’anno dopo.
Tornato in Mali, viene di nuovo utilizzato dal governo per trattare con i terroristi la liberazione dei rapiti dell’impresa francese del nucleare, Areva. È con la ribellione del 2012 che Iyad passa decisamente dalla parte jihadista diventando il tuareg più noto a aderire al jihadismo armato.
L’incipiente sahelistan
Dopo tanti anni di battaglie, nel Sahel si è come tornati indietro al periodo della colonizzazione: truppe straniere sparse nel deserto a presidiare incerti punti di passaggio, con nemici sempre in agguato e mai sottomessi. L’incipiente sahelistan è una terra immensa, in cui l'occidentale resta sempre lo straniero, tornata a ribellarsi dopo lo sfascio degli Stati nazionali che non hanno mantenuto le promesse delle indipendenze.
Per capire davvero ciò che accade si devono elencare prima tutti i fallimenti: nazionalismo panafricano, socialismo africano e afro-marxismo. Nulla è davvero mai cambiato per le persone comuni che ancora oggi – come ieri – hanno come sola alternativa l’emigrazione.
L’appena deceduto leader di al Qaeda, Ayman al Zawahiri, medico egiziano e numero due di Bin laden, l’aveva capito da tempo, affermando nel 2007: «portiamo il jihad in Africa». Lui si rivolgeva in particolare agli shabab somali ma, come spesso accade, sono altri ad aver raccolto il suo invito insediando una nuova costola di al Qaeda in Africa.
Un’immagine del marzo 2017 postata sul web, mostra Iyad ag Ghali assieme ad altri quattro capi tra cui tre arabi responsabili di Al Qaeda del Maghreb e Amadou Koufa comandante della brigata jihadista dei peul-fulani. La saldatura interetnica arabi-tuareg-peul avviene nel nome del jihad nero.
Il nuovo raggruppamento si fa chiamare GSIM, gruppo di sostegno all'islam e ai musulmani. Unico neo: alcuni puristi non hanno accettato la fusione né la leadership tuareg, rifiutandosi di aderire. Hanno optato invece per la creazione dello Stato islamico del Grande Sahara e si sono spostati verso il Burkina. Contestano agli altri di aver deviato dalla vera dottrina, contaminandosi con le esigenze nazionaliste dei tuareg, i loro usi e costumi. Tra i due gruppi ci si combatte, come a dire: c’è sempre qualcuno più jihadista di te.
La regione è fragile di per sé: esplosione demografica, fragilità climatica, assenza di prospettive per i giovani che diventano sottoproletariato urbano nelle città nere del sud, zone rurali abbandonate e agricoltura morente, contrabbando di armi, droga sigarette ecc. La preesistente corruzione generalizzata dei pubblici poteri e la porosità dei confini hanno decretato il semi fallimento degli Stati della regione.
Tutto ciò crea un terreno privilegiato per l'espansione di un'alternativa e oggi l'unica presente è quella jihadista, che è riuscita a dirottare anche il nazionalismo nomade. I vari presidenti maliani che si sono susseguiti al palazzo di Koulouba a Bamako, non si sono mai realmente preoccupati, certi che i jihadisti arabi sospinti verso sud dall’esercito algerino sarebbero stati inghiottiti dalle sabbie mobili delle divisioni tuareg, una popolazione da sempre difficile, ribelle e divisa. È invece avvenuto – almeno in parte – il contrario.
L'islam nero ha una tradizione sufi, confraternale, spesso sincretica. Da sempre ha subìto influenze rigoriste in provenienza dal Medio Oriente attraverso il Sudan e il nord della Nigeria, riuscendo sempre a resistere e a digerire tali tentazioni. Ma oggi, dopo il fallimento di tutte le rivolte e degli accordi di pace, e in assenza di altre proposte, resta solo tale maligna influenza.
L'appello alla giustizia, all’eguaglianza e alla purificazione dalla corruzione, è divenuto un tema religioso: l’attesa millenarista di un mondo nuovo che deve ancora venire e in nome del quale si può uccidere. Intanto il tempo scorre e per le popolazioni locali una sola cosa è certa: come ha sempre fatto, la sabbia del deserto assorbirà in silenzio anche tutto questo sangue.
© Riproduzione riservata