- Dopo circa 14 mesi dal golpe che ha interrotto il processo di democratizzazione in Sudan, i militari e le principali forze politiche civili firmano un accordo che sblocca lo stallo e dovrebbe mettere fine a un periodo di intensi scontri che hanno fatto oltre 120 morti.
- Per la prima volta nella storia del Sudan si assisterebbe a un esecutivo interamente formato da civili. Il documento, licenziato nella mattinata del 5 dicembre, vede però l’opposizione di molti gruppi della società civile e delle realtà islamiche.
- L’intesa è stata firmata dai due generali al potere in Sudan, il capo del Consiglio sovrano Abdel-Fattah Burhan e il vice Mohammed Hamdan Dagalo, e dai leader del principale gruppo pro-democrazia del paese, Forze della libertà e del cambiamento a Khartoum.
Nella mattinata di lunedì 5 dicembre, a 14 mesi dal colpo di stato militare che ha interrotto il percorso di transizione democratica innescato dalla cosiddetta primavera sudanese e fatto precipitare il paese nell’ennesima crisi di instabilità e turbolenza, si è giunti a una firma storica tra gli ufficiali a capo del governo golpista e alcuni dei movimenti rappresentativi della società civile.
L’accordo, sotto egida Onu e facilitato, tra gli altri, da Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, prevede l’istituzione di un nuovo governo di transizione a guida civile che condurrà il paese alle elezioni e suggerisce una road map da seguire dopo il colpo di stato dell’ottobre 2021.
Naturalmente la firma non fuga tutti i grandi dubbi attorno all’intesa e, soprattutto, alla possibilità che tenga nei prossimi mesi: già nei giorni precedenti e fin dalle prime ore della mattinata di lunedì, numerosi gruppi politici di diversa matrice manifestavano contro le trattative mentre sono varie le perplessità riguardo ad alcuni nodi non affrontati come la data delle elezioni e il nuovo assetto del sistema giudiziario, oltre all’attuazione delle riforme militari.
Ciononostante, emergono fattori che alimentano flebili speranze e fanno parlare se non di svolta, almeno di un tentativo importante di dialogo e cambiamento. È di fondamentale importanza, infatti, che la giunta militare abbia dichiarato di volersi fare completamente da parte lasciando a partiti e movimenti provenienti dalla società civile il compito di affrontare le elezioni e formare il nuovo governo.
Omar al Bashir
Sarebbe la prima volta nella storia del Sudan che dalla sua indipendenza dal Regno Unito, tra le prime del continente, nel 1955, ha visto alternarsi governi a guida spiccatamente militare con tinte fortemente islamiche.
Tra i periodi politici più oscuri, c’è quello che ha visto protagonista Omar al Bashir. Salito al potere nel 1989 grazie a un colpo di stato appoggiato dall’estremista Hassan al Turabi, aveva da subito dato l’innesco a una classica dittatura islamica.
Noto per i metodi repressivi in patria e per il sostanziale annullamento delle libertà civili, Bashir è famoso per l’ospitalità offerta a Osama bin Laden negli anni ’90, e per una serie di delitti – come la soppressione delle rivolte nel Darfur con 400mila morti e 2,5 milioni di profughi – che nel 2009 gli sono costati la condanna della Corte penale internazionale, con conseguente richiesta di estradizione, mai eseguita, per crimini di guerra e contro l’umanità.
La primavera sudanese
L’incredibile quanto inaspettato successo della primavera sudanese nell’aprile del 2019, quindi, che portò alla defenestrazione di uno dei più sanguinari dittatori della storia d’Africa, è stato salutato con molto interesse. L’esperimento, tra i pochi riusciti in quell’area del mondo, ha condotto al varo di un esecutivo che per la prima volta includeva, seppure al 50 per cento, elementi civili.
Per questo, il colpo di stato dell’ottobre del 2021, guidato dal capo dell’esercito Abdel Fattah al Burhan, ha fatto temere per un ritorno al passato e a una ricomparsa sulla scena politica nazionale di elementi come Salah Gosh, ex direttore della sicurezza nazionale e braccio destro di Bashir, accusato di crimini contro l’umanità e in esilio in Egitto o, addirittura, dello stesso ex dittatore.
Con la firma del 5 dicembre, si può perlomeno tornare a sperare in una fine degli scontri che negli ultimi 14 mesi hanno fatto circa 120 morti e in una ripresa del processo democratico in Sudan. L’accordo, il primo di almeno due previsti, è stato firmato dai due generali al potere in Sudan, il capo del Consiglio sovrano Abdel Fattah Burhan e il vice Mohammed Hamdan Dagalo, e dai leader del principale gruppo pro democrazia del paese, Forze della Libertà e del cambiamento, presso il palazzo della Repubblica di Khartoum.
Molte delle principali forze politiche dissenzienti, però, lo hanno boicottato, tra queste il Comitato di resistenza, che si è sempre rifiutato di negoziare con i generali o i movimenti islamici che non lo accettano perché troppo secolare e lontano dai principi religiosi.
Il documento ricalca la bozza di costituzione transitoria proposta dall’Ordine degli Avvocati del Sudan a settembre e rimanda a un secondo tempo questioni più spinose come il sistema giudiziario, le riforme militari e la data delle elezioni anche se prevede fin da subito il delicato punto dell’unificazione delle forze armate sudanesi.
Sono molte le ombre che accompagnano l’attività delle formazioni militari o paramilitari, prima fra tutte quella guidata proprio dal vicecapo del Consiglio sovrano Dagalo, ora nominata Forze di supporto rapido, passata alle cronache per crimini efferati in passato sotto il nome di Janjaweed. Stati Uniti, Norvegia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito «accolgono con favore l’accordo su un quadro politico iniziale».
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