Nel nord dell’Iraq sono ancora presenti milioni di ordigni esplosivi, eredità delle guerre e dei conflitti interni degli ultimi decenni. Bonificare i terreni è pericoloso, ma necessario per permettere alla popolazione locale di tornare a vivere nelle proprie case e per evitare nuovi morti e mutilati
Per arrivare al campo di Mlay Golle, pochi chilometri a nord-est di Sulaymaniyah, bisogna percorrere una strada per buona parte sconnessa che si arrampica sulle colline intorno alla seconda città più grande del Kurdistan iracheno. Una volta lasciata la via principale non si incontrano che poche, sporadiche abitazioni, mentre in lontananza si scorge qualche piccolo villaggio o un branco di pecore intento a brucare l’erba verde-giallastra.
La meta del viaggio stride con l’atmosfera quasi bucolica del paesaggio e costringe a guardare quelle colline e quei campi con occhi ben diversi. La macchina si ferma all’entrata del campo allestito da MAG, la Ong che si occupa di bonificare i terreni del Kurdistan iracheno infestati da mine e altri ordigni inesplosi.
Qui gli sminatori e le sminatrici dell’organizzazione si preparano per iniziare il lavoro e sempre qui tornano a mangiare e a riprendere fiato, bevendo un tè caldo o fumando una sigaretta all’ombra di un albero. Il tempo per riposare però è poco. L’Iraq è uno dei paesi più minati al mondo e la maggiore concentrazione di mine e altri ordigni come mortai, bombe a grappolo, granate ed esplosivi improvvisati tanto cari all’Isis si trova proprio nella regione curda.
Le mine italiane
I conflitti succedutisi negli ultimi sessant’anni hanno lasciato segni evidenti nel territorio e nella vita della popolazione, costretta a fare i conti con un passato eternamente presente e che ne mette a rischio anche il futuro. La data di scadenza per la bonifica totale dell’Iraq era stata fissata per il 2028, ma allo stato attuale è molto difficile prevedere quando si raggiungerà davvero questo obiettivo. Intanto gli ordigni ancora attivi nel paese continuano a reclamare la loro quota di vittime e intere aree sono tuttora inabitabili, con 665mila persone costrette a vivere da anni nei campi per gli sfollati interni.
Gli ordigni che infestano il territorio del Kurdistan iracheno hanno diverse origini, ma una delle minacce maggiormente note alla popolazione locale è quella delle mine italiane. Negli anni Ottanta, durante la guerra tra Iran e Iraq, Saddam Hussein ha acquistato dall’Italia milioni di mine da piazzare lungo il confine con la Repubblica islamica per fermare l’avanza dell’esercito nemico.
Tra queste, le più letali sono quelle realizzate dall’azienda Valsella, in particolare le Valmara o V69. Queste mine sono famose per la loro doppia carica: la prima fa saltare il dispositivo all’altezza dell’addome, mentre la seconda causa l’esplosione che uccide chi è stato così sfortunato da calpestarla.
Sopravvivere all’esplosione di una Valmara è alle volte possibile, ma ad un prezzo altissimo: chi non muore sul colpo o per le ferite riportate resta senza arti e spesso anche senza la vista a causa delle schegge. Una condanna a morte eseguita solo a metà in grado di distruggere la vita di interi nuclei familiari.
Vita da sminatore
Per chi è nato e cresciuto nel Kurdistan iracheno questo tipo di minacce sono la normalità, ma non tutti sono disposti ad accettarlo. Salaam Muhammed, responsabile tecnico del campo di addestramento di Chamchamal è uno di questi.
«Io vengo da Penjwin, un’area di confine con l’Iran altamente contaminata», spiega Salaam, mentre con il dito indica un punto a nord-est sulla grande cartina appesa alla parete del suo ufficio. «Nel 1991, quando sono scoppiate le rivolte curde contro il regime di Saddam, in tantissimi sono scappati verso il confine per cercare rifugio e sono finite nei campi minati. Tante persone innocenti sono esplose davanti ai miei occhi ogni giorno».
L’orrore del conflitto tra i curdi e il regime consumatori negli anni Novanta ha spinto Salam a dedicare la vita alla bonifica del suo paese e dopo quasi trent’anni è ancora convinto della scelta fatta. Soprattutto quando vede i frutti del suo lavoro. «Ogni volta che torno nei villaggi in cui ho lavorato mi trattano come un membro della loro famiglia», racconta con orgoglio Salaam, le labbra sormontate da baffi scuri increspate in un leggero sorriso.
Molto resta ancora da fare, ricorda il direttore, ma è importante non perdere la speranza. «Dobbiamo credere che il futuro sarà migliore, altrimenti non ha senso fare un lavoro così pericoloso. Molte persone hanno rinunciato e sono andate via, ma cosa dovrei fare? Andare in Europa e diventare un rifugiato? Per me non ha senso. La mia battaglia è qui».
Le sminatrici
Il pensiero di un Kurdistan iracheno finalmente bonificato è ciò che guida anche gli sminatori e le sminatrici del campo di Mlay Golle mentre con i metal detector setacciano l’area che è stata loro assegnata. Prima di mettersi a lavoro, devono indossare i guanti, un pesante giubbotto protettivo che copre in parte anche le gambe e un casco dotato di una lunga visiera che arriva fin sotto al mento.
Lavorare con queste protezioni non è semplice, ancor meno durante la stagione estiva, quando le temperature superano i quaranta gradi. Le operazioni da svolgere, poi, sono di una precisione quasi snervante, ma è fondamentale rispettare ogni singola procedura e restare sempre concentrati. Gli scambi di battute tra gli operatori, infatti, sono molto rari. L’unico suono che rompe ogni tanto il silenzio quasi religioso del campo è il bip acuto del metal detector, seguito dalla voce dello sminatore o della sminatrice che ha trovato un nuovo ordigno.
«Sapevo che questo lavoro sarebbe stato diverso dagli altri, ma volevo farlo perché in questo modo posso aiutare la mia comunità e il mio paese», spiega Sanariya Kareem, una delle componenti del team femminile di MAG. Mentre parla si aggiusta un lembo del velo colorato che le copre i capelli e che le ricade dolcemente sulle spalle. «Quando ho iniziato, in molti mi hanno criticata, dicendo che non era un lavoro per donne. Io però sto dimostrando che non è così e sono orgogliosa del mio ruolo qui. Sono certa che tutto questo passerà alla storia come qualcosa che le donne hanno realizzato, che io ho contribuito a realizzare».
Anche per Hawraz Muhammed è stato difficile spiegare ai suoi cari il perché di una scelta lavorativa così insolita. «Ero certa che si sarebbero opposti, ma adesso hanno capito che con il mio lavoro aiuto la nostra comunità, che sto salvando delle vite», racconta la donna con emozione. Hawraz non ha sempre fatto la sminatrice.
Fino a due anni prima lavorava come insegnante. «Certo, sono qui perché così posso guadagnare, ma nessuno farebbe un lavoro tanto pericoloso senza essere veramente motivato e poi anche così continuo a essere un’insegnante», spiega Hawraz. «Con il mio esempio insegno ai miei due figli che la vita ci presenta sempre molte difficoltà, ma che è anche possibile fare qualcosa di utile per gli altri con il proprio lavoro». Ogni mina scoperta, per queste donne, equivale a una vita salvata.
La Valsella
Nemmeno l’embargo a cui la stessa Italia ha aderito nel 1984 ha fermato le vendite della Valsella. L’azienda bresciana, passata in quegli anni sotto il controllo di Fiat, ha continuato a vendere le mine all’Iraq - e per un certo periodo di tempo anche all’Iran - attraverso la filiale di Singapore, dove arrivavano i pezzi da assemblare e spedire ai compratori.
Il giro di affari milionario si è interrotto solo nel 1987 dopo un’inchiesta del settimanale francese L’Événement du jeudi, che ha dato anche forza alla battaglia portata avanti dalle lavoratrici della Valsella capeggiate da Franca Faita, un’operaia che dieci anni dopo ha vinto il Nobel per la pace come membro della Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo.
In Italia però questa storia è quasi sconosciuta, con grande rammarico di chi ogni giorno mette a rischio la propria vita per evitare nuove morti e mutilazioni. «Com’è possibile che nessuno paghi per quello che succede qui?», chiede Salam incredulo. «Chi ha continuato ad esportare le mine dovrebbe essere condannato e risarcirci. Invece non è stato fatto nulla».
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