La sentenza dei giudici che impedisce a Donald Trump di candidarsi alle primarie dello stato, a causa del suo coinvolgimento nell’assalto del Campidoglio, difficilmente passerà il vaglio dell’alta corte federale: non solo per l’assenza momentanea di condanne, ma anche per la filosofia giuridica di John Roberts, a capo del tribunale dal 2005, che ha sempre mostrato una certa deferenza per i processi elettorali
C’è un primo, parziale stop alla corsa presidenziale di Donald Trump che arriva dalle aule di un tribunale. In questo caso è la Corte suprema del Colorado che, con un voto di 4 giudici favorevoli contro 3 contrari, ha stabilito che Trump non potrà apparire sulla scheda elettorale il prossimo novembre per aver violato i termini del quattordicesimo emendamento della Costituzione americana, che si applica a quegli esponenti politici che sono stati coinvolti in un’insurrezione, facendo dunque riferimento all’incitamento rivolto dall’allora presidente ai manifestanti che poi avrebbero assaltato il Campidoglio il 6 gennaio 2021.
Il verdetto si applicherebbe solo entro i confini dello stato. I giudici lasciano tempo all’organizzazione della campagna elettorale di Donald Trump di presentare un ricorso entro il 4 gennaio per far sì che sia la Corte Suprema federale a prendere in carico la questione.
Per la prima volta dunque viene applicato a un candidato presidente un emendamento alla carta fondamentale degli Stati Uniti varato nel 1868 per impedire ai reduci della Guerra civile che avevano partecipato sotto le insegne della Confederazione schiavista.
Dopo gli anni della Guerra civile, l’emendamento era stato utilizzato soltanto nel 1920 per impedire l’elezione del socialista del Wisconsin Victor Berger alla Camera per aver boicottato lo sforzo bellico americano durante la Grande guerra.
Le incognite
Ci sono diverse incognite in attesa di una parola definitiva da parte della Corte suprema, a cominciare dallo stesso precedente di Berger: l’esponente politico di sinistra avrebbe preparato un ricorso nel 1921 a cui giudici supremi avevano dato ragione con la sentenza Berger v. United States, che consentì al deputato di prendere finalmente possesso del suo scranno.
Nonostante la maggioranza conservatrice di sei giudici su nove, ci sono dubbi sul comportamento di alcun magistrati facenti parte del gruppo: a cominciare da Neil Gorsuch, nominato da Trump nel 2017 e che poi si è distinto per il suo attivismo giudiziario.
Il motivo è che proprio una sua sentenza emessa nel 2012 in veste di membro della Corte d’Appello per il decimo circuito a venire citata dai supremi giudici del Colorado, dove il giurista scriveva che «è legittimo che uno stato, per proteggere l’integrità dei suoi processi politici» possa consentire di «escludere candidati che hanno il divieto costituzionale di assumere incarichi pubblici».
Un’altra variabile imprevedibile invece è il comportamento del giudica capo della Corte Suprema, John Roberts, nominato da George W. Bush nel 2005.
Analizzando superficialmente le sue sentenze, vediamo che nel 2012 con la National Federation of Independent Business v. Sebelius ha dato ragione ai progressisti, salvando la costituzionalità della riforma sanitaria varata da Barack Obama, mentre con Citizens United v. Fec del 2010 ha ritenuto incostituzionale porre dei limiti alle donazioni politiche da parte di soggetti privati, verdetto invece gradito ai conservatori.
C’è un filo che unisce queste sentenze che è riassumibile nella filosofia giuridica di Roberts, ovvero la cosiddetta «moderazione giudiziaria». Un concetto coniato dal giudice della Corte Suprema Oliver Wendell Holmes, in carica dal 1902 al 1932: si può sintetizzare con l’interferire il meno possibile con le decisioni prese dagli stati e dagli organismi del governo federale, così come le leggi varate dal Congresso.
Holmes sintetizzava brutalmente: «Se gli americani vogliono impiccarsi, fornirò loro la corda». Allo stesso modo Roberts ha dimostrato una certa deferenza rispetto alla volontà dei decisori politici che difficilmente lo porteranno a riconoscere la costituzionalità della scelta dei suoi colleghi del Colorado, anche perché al momento Donald Trump non ha ancora ricevuto alcun tipo di condanna per i fatti di Capitol Hill.
Neanche una condanna per altri reati, come l’interferenza nei processi elettorali in Georgia o i processi newyorchesi basterebbero a sbarrargli la strada per il suo ritorno alla Casa Bianca.
La strada dell’impeachment
Ci sarebbe stato una strada più semplice: nel febbraio 2021, durante il processo per il secondo impeachment di Trump dovuto proprio al suo sforzo di ribaltare il risultato delle presidenziali del 2020, qualora l’ex presidente fosse stato condannato, la sentenza di condanna avrebbe previsto la squalifica a vita per l’occupazione di cariche pubbliche.
La decisione cruciale è passata dalle dita del leader repubblicano al Senato Mitch McConnell: per quanto ritenesse l’ex presidente responsabile, aveva preso la decisione di votare comunque per la sua assoluzione in virtù di un calcolo politico.
Aveva pensato che quegli eventi sarebbero bastati a far passare a Trump la voglia di ricandidarsi e nello stesso tempo avrebbe tenuto nel campo repubblicano i suoi elettori populisti.
Una scelta che si riverbera ancora oggi e che inficia ogni altro possibile ricorso presso i tribunali di altri stati: al momento sono quindici i ricorsi depositati e una sentenza della Corte suprema a favore dell’ex presidente li annullerebbe in automatico.
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