Un vertice convocato troppo frettolosamente: il destino della riunione del Cairo era segnato prima ancora di iniziare. Tuttavia l’urgenza della situazione ha spinto il presidente al Sisi a provarci. Si dice che la causa del fallimento è stata l’impossibilità di un accordo sulla condanna di Hamas tra paesi arabi ed europei ma la verità è che tale accordo non esiste nemmeno tra paesi arabi, senza parlare degli stati africani subsahariani presenti. A Pretoria per esempio, fa polemica il fatto che la ministra degli esteri Pandor abbia avuto colloqui con l’organizzazione jihadista, apparentemente all’insaputa dello stesso presidente Ramaphosa. La distanza su Hamas tra le posizioni del Qatar e quelle degli Emirati arabi uniti o dell’Arabia Saudita sono notevoli. Nemmeno l’urgenza di intervenire per lenire la crisi umanitaria ha convinto i partecipanti a mettersi d’accordo. È noto quanto la capacità dei diplomatici di trovare le parole giuste per un testo concordato siano quasi infinite. L’impressione è che non ci sia stato un vero tentativo, come notti in bianco passate a limare le parole. Piuttosto quasi tutti sono giunti al Cairo con l’idea già consolidata che non fosse possibile né necessario ottenerlo. Il vertice è un esempio del “minilateralismo” in voga oggi: riunirsi senza l’ambizione di concludere; continuare a vedersi scartando l’aspirazione al consenso. I critici dell’enfasi multilaterale di una volta sono serviti: ora c’è meno retorica ma nessun accordo. Intanto la crisi a Gaza e attorno ad essa prosegue senza soluzione di continuità. L’idea egiziana era di fermare l’escalation verso una guerra regionale che rischia di travolgere tutti. Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres si è recato personalmente al valico di Rafah quasi volendolo aprire con le sue mani. I camion con gli aiuti sono transitati solo per alcune ore e quasi nessuno è riuscito a passare nell’altra direzione per mettersi in salvo. L’idea dell’Onu è che ciò che sta avvenendo sia una “punizione collettiva” dei palestinesi, non accettabile da un punto di vista del diritto umanitario e nemmeno di quello di guerra.

I paesi del Golfo

Gli Usa – che pure al vertice non sono voluti andare – stanno cercando di frenare Israele e di rimettere concretamente sul tavolo l’ipotesi dei due stati. Tuttavia né Hamas né l’estrema destra israeliana e i partiti legati ai coloni sembrano considerare ciò come una soluzione praticabile. Al Cairo non c’è stato accordo nemmeno sugli inviti: ragionevolmente tutti gli stati della regione – coinvolti in un modo o nell’altro nella crisi – dovrebbero essere presenti ma questo pone il tema dell’Iran. Su Teheran le opinioni sono molto divise anche fra stati arabo-musulmani. Il nodo iraniano verrà comunque al pettine se e non appena inizierà l’offensiva di terra. A quel punto gli schieramenti si polarizzeranno ancor più e una riunione come quella del Cairo diverrà ancor più difficile se non impossibile da convocare. Gli Stati Uniti hanno posto il veto su una risoluzione presentata dal Brasile al consiglio di sicurezza in cui si condannava la brutalità degli attacchi di Hamas contro i civili del 7 ottobre e nel contempo si chiedeva una pausa nei combattimenti per consentire l'ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Colpisce che nella stessa occasione sia la Gran Bretagna che la Russia si siano astenute: un raro momento di consenso tra due membri permanenti in genere opposti fra loro. Com’è noto, l'Egitto è stato il primo paese arabo a normalizzare le relazioni con Israele, decisione che il presidente Anwar Sadat pagò con la vita. Oggi la posizione del Cairo non è più politicamente cruciale come fu negli anni Settanta e Ottanta ma può aprire canali di comunicazione. D’altronde, ad ogni crisi e guerra precedente tra Israele e Hamas, le due parti si sono sempre rivolte agli egiziani per mediare tra loro segretamente, in specie nel caso di ostaggi e rapiti. In realtà il dialogo sotterraneo tra Israele e Hamas (via servizi segreti) non era mai venuto meno: l’attacco del 7 ottobre è stato preso dagli israeliani come una specie di tradimento. Nuovamente ci si rivolge dunque al Cairo ma per voltare pagina ora servirà anche l’appoggio e l’azione concorde dei paesi arabi del Golfo. L’Egitto stesso dipende economicamente e finanziariamente da questi ultimi.

Nemico comune

Ciò che lega al Sisi ai suoi alleati Mohammed Bin Salman e Mohammed Bin Zayed è l’astio comune contro la fratellanza musulmana, sostenuta invece da Doha. In tutti e tre gli stati i fratelli musulmani, e in genere l’islam politico radicale, rappresentano una minaccia. La connessione con l’Iran (caso unico di legame sciiti-sunniti) rende tutto ciò ancora più pericoloso. D’altro canto non è possibile per i leader arabi moderati non tenere conto dei sentimenti della propria opinione pubblica, massicciamente filo-palestinese, come le manifestazioni di queste settimane dimostrano. L’Egitto teme inoltre un esodo incontrollato degli oltre 2 milioni di palestinesi dentro le proprie frontiere. I servizi di intelligence egiziana – ben informati sulle condizioni politiche di Gaza – denunciano il rischio di infiltrazione di attivisti di Hamas e dei fratelli musulmani che al Sisi ha messo fuori legge. Tra l’altro le condizioni dell'economia egiziana sono pessime con un'inflazione che sfiora il 40 per cento. Le proteste sono endemiche soprattutto da quando il governo ha diminuito (e in certi casi abolito) i sussidi per il pane. Molti osservatori prevedono che il governo introdurrà ulteriori tagli alla spesa dal prossimo gennaio. Attualmente l'Egitto è il secondo maggior debitore del Fmi dopo l'Argentina ed è posto sotto osservazione dai mercati anche se quasi tutti lo considerano “too big to fail”, troppo grande per fallire. Tuttavia una guerra regionale farebbe sprofondare definitivamente l’economia del Cairo che si regge a malapena. E le relazioni con Washington potrebbero diventare molto più difficili, un vero problema visto che gli aiuti americani valgono oltre un miliardo di dollari l’anno.
 

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