Il navigatissimo diplomatico pashtun-americano Zalmay Khalilzad è l’inviato di Biden per la riconciliazione in Afghanistan, e deve gestire la delicatissima rete di relazioni che circonda il ritiro delle truppe dal paese, previsto entro l’11 settembre
- Zalmay Khalilzad, nato in Afghanistan a Mazar-i-Sharif, di etnia pashtun, cittadino americano dal 1984, uomo fidato di Washington e dei grandi petrolieri, da tempo si porta addosso la qualifica ingombrante di “vicerè afgano”.
- Il presidente americano Joe Biden gli chiede di continuare il suo lavoro “vitale” per tenere in piedi l’accordo sulla riconciliazione firmato con i talebani. È un accordo che originariamente prevedeva l’uscita delle truppe straniere entro il 1° maggio, termine poi posticipato all’11 settembre.
- Dopo l’attacco alle Torri gemelle Khalilzad è stato nominato Rappresentante speciale del presidente Bush in Afghanistan, poi ambasciatore a Kabul, poi ambasciatore in Iraq, poi Rappresentante permanente alle Nazioni unite e infine Rappresentante speciale per la riconciliazione afgana.
Zalmay Khalilzad, nato in Afghanistan a Mazar-i-Sharif, di etnia pashtun, cittadino americano dal 1984, uomo fidato di Washington e dei grandi petrolieri, da tempo si porta addosso la qualifica ingombrante di “vicerè afgano”. È un appellativo che ricorda le Indie britanniche.
Adesso il presidente americano Joe Biden gli chiede di continuare il suo lavoro “vitale” per tenere in piedi l’accordo sulla riconciliazione firmato con i talebani in Qatar durante la presidenza di Donald Trump. È un accordo che originariamente prevedeva l’uscita delle truppe straniere entro il 1° maggio e che deve mettere fine alla guerra più lunga nella storia degli Stati Uniti. Sembra soprattutto una scommessa spericolata.
Biden ha spostato la partenza dell’ultimo marine all’11 settembre. I talebani possono reagire con l’esplosivo o barattando qualche concessione politica. Per ora una parte della delegazione è in Pakistan e aspetta la fine del Ramadan.
Le origini
Già la nascita a Mazar condensa una parte della biografia di questo negoziatore che con il tempo si è trasformato in devoto figlio della sua seconda patria, solerte seguace dei repubblicani. Questa città si affaccia ai bordi dell’ex impero sovietico.
Qui vicino ci sono giacimenti di gas e qui ci sono gli unici, scarsi chilometri di ferrovia dell’intero paese. Durante l’occupazione russa al venerdì, dopo la preghiera, gli altoparlanti sulla piazza davanti alla grande moschea trasmettevano le canzoni di Raffaella Carrà, in una specie di cosmopolitismo laico alimentato da secoli di commerci.
A breve distanza restano tracce della antica Balkh, una delle città più antiche, grandi e prospere dell’Asia centrale. E altre glorie archeologiche sono sparse nella regione.
L’itinerario di Khalilzad per diventare “vicerè” non partiva da un luogo qualunque. Già studente liceale le relazioni di suo padre, funzionario governativo del re, lo avevano inserito in uno scambio culturale con i coetanei americani.
Un suo compagno di viaggio era Ashraf Ghani, oggi presidente a Kabul e suo antagonista. Entrambi erano poi approdati alla università americana di Beirut, altro snodo decisivo per le future classi dirigenti del medio oriente. Da lì Khalilzad passa alla università di Chicago, pronto per indossare appena trentenne la cittadinanza degli Stati Uniti.
Entra prima nel mondo accademico e successivamente in quello della grande diplomazia, quella che sparge con abbondanza e orgoglio davanti a nomi e cognomi a volte indegni l’espressione “sua eccellenza”.
Sono gli anni in cui a Kabul i sovietici occupano le stanze del potere mentre a Mazar molte iscrizioni dei negozi apprezzano i caratteri in cirillico. Khalilzad, bene introdotto nella sua nuova patria, muove i primi passi come assistente alla Columbia university, al Consiglio atlantico e alla Rand Corporation creata ai tempi della Guerra fredda e particolarmente interessata agli scenari nucleari, ispirando le imprese cinematografiche del dottor Stranamore.
Il ritiro dei russi
Tra Washington e il Centro studi per il medio oriente la biografia del pashtun-americano si consolida. I russi sconfitti si ritirano, il governo comunista a Kabul cade dopo qualche anno e nel 1996 i talebani arrivano al potere. Mentre in Asia centrale le ex repubbliche islamiche dell’Urss cercano la loro autonomia.
Il Turkmenistan in particolare pensa di esportare petrolio e gas verso Pakistan e India, attraverso l’Afghanistan. Il progetto misura nella edizione ridotta oltre 1.400 chilometri. Khalilzad non è imbarazzato dagli studenti islamici con il turbante e il kalashnikov, affianca volentieri come consulente la società petrolifera americana Unocal, fondata nel 1890, che è interessata al progetto.
I petrolieri aprono un ufficio a Kandahar, la vera capitale politica dei talebani, e si installano nel quartiere giusto, vicino alla residenza del mullah Omar e al consolato pachistano, con il suo immancabile contorno di agenti nemmeno troppo segreti.
Il vicepresidente della società, Marty Miller, non va per il sottile e invita una delegazione talebana nella sua residenza e al quartier generale in Texas. Nel tempo gli afgani ricameranno attorno a questo viaggio per aggiungere che gli studenti islamici erano stati trascinati in una piscina a forma di cuore e poi fino a Las Vegas.
Anche il ministro degli Esteri del mullah Omar si esprime senza pregiudizi ideologici: vogliamo ricostruire il paese distrutto, per questo ci interessa il progetto. È un’opera che vale tra i sette e dieci miliardi di dollari e che dovrebbe garantire ai nuovi governanti afgani diritti di transito per quattrocento milioni di dollari annui.
Questo pragmatismo appare anche a Kabul dove i talebani rimettono parzialmente in funzione la cantina produttrice di vino e liquori allestita dall’italiano Antonio de Feo al tempo della monarchia. Ufficialmente producono solo alcol per gli ospedali, non violano il proibizionismo religioso.
Tutto però si ferma quando i disaccordi tra talebani e Bin Laden – che l’occidente non ha mai voluto considerare – emergono nel 1998, dopo gli attacchi di al Qaida alle ambasciate americane in Africa e i missili made in Usa di risposta sull’Afghanistan.
Ancora una volta questo paese di montagne e deserti, senza sbocchi sul mare, si rivela instabile e turbolento. Oggi nel curriculum di Khalilzad e nella storia ufficiale della Unocal, assorbita poi dalla Chevron, il gasdotto afgano è un capitolo piuttosto sbiadito e sbrigativo, di cui non vantarsi.
Negli anni successivi gli interessi geopolitici e quelli personali del “vicerè” lo porteranno a consulenze e contratti con compagnie petrolifere degli Emirati, con i norvegesi, gli inglesi, i curdi, e anche nella provincia di Balkh, per un’aerea petrolifera che promette buoni guadagni. In una miscela di interessi tra personaggi politici e barili di petrolio da vendere e da comprare.
Inviato speciale
Il grande gioco attorno all’Asia centrale che aveva appassionato due secoli prima Russia e Gran Bretagna si riaccende brutalmente con le Torri di New York abbattute l’11 settembre 2001. Khalilzad viene nominato subito Rappresentante speciale del presidente Bush in Afghanistan, poi ambasciatore a Kabul, poi ambasciatore in Iraq, poi Rappresentante permanente alle Nazioni Unite e oggi Rappresentante speciale per la riconciliazione afgana.
E proprio durante il 2002, mentre gli americani rincorrono invano Bin Laden, Khalilzad mostra la sua spregiudicatezza diplomatica e quanto il passaporto americano abbia scolorito le radici afgane.
In una giornata limpidissima di aprile, mentre il verde dei prati comincia a rubare spazio alla neve, un Hercules della aviazione italiana accompagnato da altri due velivoli simili, per ingannare qualche male intenzionato con un missile terra aria, scende a Kabul.
Riporta in patria il re Zaher Shah, deposto nel 1973, e da allora in esilio a Roma. Il paese accumula macerie da oltre venti anni di guerra e altrettante macerie soffocano la vita politica, dopo il golpe contro la monarchia, l’invasione sovietica, le lotte furibonde fra mujaheddin, gli attacchi dei mujaheddin contro i talebani, e i bombardamenti aerei degli americani che spesso hanno solo spianato le montagne, senza colpire le milizie talebane.
Non ci sono personalità significative da esibire. Zaher Shah nei suoi lunghi anni di governo aveva protetto l’indipendenza nazionale, al suo ritorno non ha alcuna rivendicazione, ama questa frase: «Il potere è come un sasso per terra, si può solo raccoglierlo, ma non prenderlo con forza prima che cada». Khalilzad teme la sua popolarità, sembra consigliato dal Kgb, decide che quel passeggero deve apparire poco e parlare ancora meno.
Quando l’ex sovrano scende dall’aereo, circondato dai carabinieri, viene subito infilato dentro un’auto nera, che fa un girotondo di pochi metri, lasciando delusi e rumoreggianti se non ruggenti i notabili arrivati da Kandahar, la sua città natale.
Nella strada dall’aeroporto alla residenza modesta dove alloggerà tutti gli incroci sono stati bloccati, la gente viene fermata cinquanta metri prima. E il ripetitore della televisione quella sera è guasto, il ritorno del re è cancellato dalla cronaca. Un alto funzionario confida che le trasmissioni sono state interrotte per ordine superiore.
Ma nonostante il cordone sanitario davanti alla residenza nei giorni successivi si allunga una fila di delegazioni impolverate, pazienti e orgogliose, partite dalle province più lontane per rendere omaggio a chi torna in patria. Questi segni di consenso popolare non sono previsti nel copione preparato dai suggeritori stranieri.
Durante gli anni romani Zaher Shah aveva confidato: se tornerò voglio convocare la Loya Jirga. Questa grande assemblea di notabili e religiosi resta ancora oggi il vero momento di confronto politico nel paese. Alcune settimane dopo l’atterraggio dell’Hercules i notabili si raccolgono sotto un tendone bianco usato dai tedeschi per l’Oktoberfest.
Un amico afgano impassibile mi evita tutta la rete di controlli. Quando arriva il momento di dare la parola all’ex re anche questa volta puntualmente manca la corrente, la voce svanisce, come le immagini dentro il televisore la sera dell’arrivo. Una umiliazione superflua.
E come all’aeroporto la turbolenza muscolosa dei pashtun, la etnia più numerosa del paese che Khalilzad non sa più riconoscere, subito si riaccende. I turbanti e i lunghi abiti agitano la scenografia.
Il governatore di Kandahar infuriato lascia l’assemblea raccolta sotto il tendone e prende un aereo per Islamabad. Va a riceverlo il ministro degli interni, il Pakistan è sempre pronto a porgere la comprensione e il sostegno militare che ha già offerto ai talebani.
Tè e tradimenti
Ma il “vicerè” non corregge i suoi piani, completa la sua opera di oscuramento durante una conferenza stampa affiancato dal rappresentante dell’Onu Brahimi, anche lui gratificato dal rango di “eccellenza”. Confermano che sotto il tendone bianco tutto si è svolto regolarmente, senza problemi. Vogliono dire che la corrente era stata tolta al momento esatto. Sembrano le parole di due venditori recuperati al bazar.
Qualche anno dopo, quando Khalilzad arriverà a Baghdad come ambasciatore, qualcuno annoterà anche lì la sua arte perfezionata di offrire sorridente una tazza di tè e nello stesso tempo di pugnalare l’ospite alla schiena.
La perdita delle radici dopo l’ingresso nell’orbita americana è toccata anche a Khaled Hosseini, più giovane di Khalilzad, esploso sul piano internazionale con le pagine de Il cacciatore di aquiloni.
Il suo agente editoriale alla domanda quanti anni Hosseini abbia realmente vissuto in Afghanistan ha detto: non siamo interessati a rispondere su questo punto. Ha risposto però indirettamente lo stesso Hosseini tornato a Kabul con uno di quei viaggi istituzionali superprotetti, sterilizzati, dove non si cammina mai su un marciapiede né si sente l’odore di un luogo. Nel suo resoconto scritto ha esordito con «noi occidentali». Ormai la stessa etnia del “vicerè”.
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