- La polemica sulla nomina del nuovo presidente della commissione elettorale ha diviso le confessioni religiose.
- I vescovi cattolici non si fidano del potere e restano l’unico vero contro-potere democratico.
- I pentecostali cercano di influenzare la presidenza Tshisekedi.
Nella Repubblica democratica del Congo le elezioni presidenziali del 2019 hanno dato luogo a lunghe polemiche soprattutto in seno all’opposizione quando il candidato principale, Martin Fayulu, ha denunciato brogli e dichiarato che la vittoria era sua. Tuttavia la comunità internazionale aveva avvallato l’elezione di Félix Tshisekedi e in particolare l’accordo tra il suo partito e la fazione dell’uscente Joseph Kabila, in nome della stabilità regionale.
D’altronde il nuovo presidente ha tutte le carte in regola in quanto figlio di Étienne Tshisekedi, l’oppositore storico di Mobutu Sese Seko prima, così come dei due Kabila (padre e figlio) poi, rappresentando la voce dell’opposizione fin dalla conferenza nazionale degli anni Novanta. Aureolato dalla tradizione familiare, il figlio Félix è parso subito molto più politico del padre riuscendo a negoziare con lo sconfitto Kabila, il quale manteneva molte leve del potere reale.
Con il passare dei mesi è addirittura riuscito a isolarlo e a rompere l’alleanza, costruendo una nuova coalizione senza il partito di Kabila. In meno di un anno Tshisekedi è riuscito a imporsi e a convincere, mediante una politica aperturista e un apprezzato dinamismo internazionale, recuperando spazio di manovra e reputazione nei confronti dei vicini Uganda e Ruanda. Tshisekedi ha anche ottenuto qualche vittoria interna contro i ribelli dell’Adf, di cui una parte dice di aderire all’Isis.
Le relazioni con la chiesa
Malgrado tutto questo, la relazione con la società civile e in particolare quella con la chiesa cattolica e le chiese protestanti storiche, sta rischiando di raffreddarsi. La causa sono le prossime elezioni la cui scadenza è prevista per il 2023. I vescovi non si fidano: già da mesi chiedono al presidente il rispetto del calendario elettorale. Tale atteggiamento ha guastato i rapporti, anche perché Tshisekedi è vicino alle chiese pentecostali che in Congo sono in ascesa. Nella regione di origine del presidente, il Kasai orientale, è addirittura salita la tensione con attacchi alle chiese cattoliche, profanazioni e distruzioni, atti commessi – si dice – da bande di sostenitori del presidente.
Il vero casus belli che ha fatto scattare l’ultima crisi è stata la nomina del nuovo presidente della commissione elettorale indipendente. Secondo le norme vigenti quest’ultimo deve essere scelto dalle otto denominazioni religiose ufficialmente riconosciute nel paese: chiesa cattolica, chiese protestanti storiche riunite nel Ecc (église di Christ au Congo); chiesa ortodossa; kimbanghisti (Ejcsk: chiesa afro-indipendente fondata dal congolese Simon Kimbangu a inizio Novecento); islam; chiese del risveglio (neo evangelicali e pentecostali); chiese indipendenti (altre denominazioni locali); esercito della salvezza. Infrangendo la regola dell’unanimità, sei delle otto confessioni hanno depositato presso la presidenza dell’assemblea nazionale il nome di un candidato già respinto dai cattolici e dai protestanti perché considerato troppo vicino al presidente in carica (Denis Kadima).
Da qui è scattata una fortissima polemica, con il rifiuto cattolico e protestante di approvare la scelta e il conseguente aumento degli attacchi con episodi di sassaiole anche a Kinshasa contro la residenza del cardinale Fridolin Ambongo, cosa mai accaduta prima. Vista l’impasse le otto confessioni hanno sospeso il lavoro con un comunicato che sancisce il disaccordo. Cattolici e protestanti ritengono illegittima la nomina di Kadima mentre le altre denominazioni sostengono che per superare lo stallo occorreva applicare il voto a maggioranza.
Potere e religione
Fin dalla “marcia dei cristiani” del 1992 per esigere la democrazia dall’ex presidente Mobutu, la chiesa cattolica congolese è in prima linea nella difesa dei diritti umani e della transizione democratica. Basta rammentare il ruolo di Laurent Monsengwo Pasinya recentemente scomparso (prima arcivescovo di Kisangani, poi di Kinshasa, nominato cardinale nel 2010), durante le varie fasi della conferenza nazionale da lui autorevolmente presieduta; i numerosi interventi della conferenza episcopale durante i periodi elettorali (con l’impiego di decine di migliaia di osservatori elettorali indipendenti); le critiche feroci contro Joseph Kabila e le famose marce del 2017 e 2018 in cui i manifestanti sfilavano dietro preti che portavano il crocefisso e così via. Il ruolo della chiesa ha assunto con il tempo un rilievo politico e militante senza pari nel paese, con un difficile rapporto con il potere.
Alla chiesa si deve anche la mediazione nell’accordo di San Silvestro del 31 dicembre 2016 per sbloccare lo stallo e permettere all’opposizione di rientrare nel quadro politico e andare alle elezioni in cui è prevalso appunto Tshisekedi. Chiunque sieda a palazzo presidenziale di Kinshasa sa bene che la chiesa cattolica, assieme ai protestanti storici, in Congo rappresenta forse il più autorevole arbitro dei processi politici interni, senza timore di criticare le decisioni dei leader. Nemmeno Tshisekedi sfugge a tale regola.
Scontro fra chiese
Sotto l’attuale polemica si cela tuttavia un altro problema: il tentativo delle chiese del risveglio di aumentare il loro peso specifico in competizione con quello dei cattolici. In Congo attorno alla presidenza è in corso una battaglia di influenze che potrà marcare il futuro del paese. Proprio in forza della mediazione del 2016, i vescovi si sentono responsabili del progresso democratico e in buona sostanza la società civile glielo riconosce. Dopo la proclamazione della vittoria di Tshisekedi, la conferenza episcopale ha fatto trascorrere parecchie settimane prima di riconoscerli. In seguito ha criticato l’alleanza Tshisekedi-Kabila, felicitandosi della sua successiva rottura.
Pur soddisfatti della nuova coalizione (union sacrée), i vescovi non hanno risparmiato critiche all’azione del nuovo governo, accusando numerosi ministri di trasformismo e il premier di non preoccuparsi abbastanza della guerra nei due Kivu e delle violenze che ancora affliggono il Congo.
Mentre Tshisekedi si sforza di portare il paese fuori dai suoi mali storici recuperando visibilità all’estero, i vescovi non si accontentano e chiedono molto di più, vista la terribile situazione sociale dei congolesi. Per il ruolo che riveste, la conferenza episcopale sente di essere l’unica forza che possa rappresentare le attese dei congolesi: uscire definitivamente dalla guerra, avere un governo democratico e accedere al benessere. I vescovi congolesi pensano che i tre obiettivi non possano essere disgiunti: «il benessere del popolo passa per il consolidamento della democrazia» scrivono. Mentre anche in Africa molti si volgono verso il modello autoritario e sviluppista di tipo cinese, i prelati congolesi rimangono una delle poche voci continentali a credere fortemente che la democrazia sia l’unica risposta.
Non vedono di buon occhio il potere crescente dei consiglieri “spirituali” del presidente, a iniziare da Jacques Kangudia Mutambayi della Church of god mission di Benin City in Nigeria. Costui conosce alla perfezione le reti pentecostali in Africa ed è stato pastore in Benin e Burkina Faso. Gli incarichi di Kangundia si stanno allargando alla politica estera. C’è poi il pastore Olivier Tshilumba Chekinah che ha organizzato la partecipazione del presidente a Washington all’American Israel public affairs committee, dove Tshisekedi ha annunciato la sua decisione di riconoscere Israele.
Un terzo pastore importante, Roland Dalo, è responsabile della chiesa del presidente (Centro missionario Filadelfia di La Gombe) che è la stessa dell’oppositore Fayulu. I pentecostali si stanno organizzando per rafforzare la propria influenza: anche se non hanno la medesima presenza sociale, educativa e sanitaria della chiesa cattolica, sono riusciti a impiantare nel paese numerose mega-churches sul modello nigeriano.
Durante l’amministrazione Trump hanno avuto sostegno per le loro iniziative; ora con il cattolico Biden devono rimodulare la loro azione. Per far uscire il Congo dalle sue numerose crisi, il presidente non può fare a meno di una conciliazione tra i due blocchi. Si tratta di una sfida per la conquista dell’anima dei congolesi.
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