La capitale indiana è uno dei luoghi più tossici del pianeta: neppure 24 ore di salubrità all’anno. Le malattie respiratorie sono aumentate del 15 per cento in poco tempo e gli ospedali collassano. Secondo i dati quest’anno non ci sono state neppure ventiquattro ore di aria salubre
Neppure un giorno. Secondo il Central Pollution Control Board del ministero dell’Ambiente indiano a Delhi, città più inquinata al mondo, quest’anno non ci sono state neppure ventiquattro ore di aria salubre. E così sarà fino a fine dicembre.
Città più inquinata al mondo
Quella di Delhi è una crisi che si inasprisce ogni anno, a partire da ottobre. Il mese scorso l'indice di qualità dell'aria della capitale indiana ha segnato costantemente un AQI tra i 200 e 300 punti, ma il valore (che segnala la concentrazione di inquinanti in città) ha sfiorato in alcune zone 1700 se non 1800 punti. E ne bastano 150 per parlare di danni per la salute.
In attesa di un seppur lieve miglioramento, si studia e si lavora da casa, si fermano i veicoli più vecchi e i camion, si interrompono i lavori di costruzione, si usano cannoni ad acqua per cercare di sopperire alla pioggia. Le malattie respiratorie sono aumentate del 15 per cento e gli ospedali con reparti di pneumologia si riempiono. Persino i matrimoni si spostano al chiuso delle hall d’albergo. Il costo per la collettività e per la salute dei cittadini, spiega Bhargav Krishna del think tank Sustainable Futures Collaborative di Delhi, è importante: malattie croniche, morti premature, disoccupazione nei settori bloccati dalle misure anti inquinamento.
A peggiorare le cose ci si è messo il meteo: l'assenza di pioggia e vento s’è unita alla conformazione geografica di una città adagiata sulla piana gangetica, ma circondata a nord dalla catena himalayana che intrappola gli inquinanti e ne impedisce la dispersione.
Ma le concause di questa crisi sono sempre le stesse, autunno dopo autunno: emissioni industriali e centrali a carbone, scarichi delle auto, la polvere dei lavori delle attività di costruzione e la combustione dei raccolti. È contro gli agricoltori che le autorità tendono a puntare il dito: nonostante i divieti, in questa stagione nei campi che circondano la capitale si danno alle fiamme le stoppie, così da liberare velocemente i terreni per la successiva stagione di semina. I fumi convergono di massa sulle aree urbane: «La combustione dei raccolti contribuisce per il 30 per cento ai picchi invernali che osserviamo e questo spinge i livelli di AQI tra le 20 e le 50 volte oltre le linee guida dell’Oms» precisa Krishna. «Detto questo, se guardiamo all’intero anno, parliamo di meno del 5 per cento del fenomeno».
L’allarme inquinamento di Delhi, infatti, non si riduce più a pochi mesi: «Livelli elevati si presentano durante tutto l’anno, fonti stagionali e condizioni meteorologiche sfavorevoli creano una coltre tossica di smog in modo perenne: bisognerebbe affrontare piuttosto temi come i trasporti, le emissioni industriali e quelle energetiche».
Cause e soluzioni
Il quadro è multi-sistemico, conferma Gregory Carmichael, professore di ingegneria chimica e biochimica presso l'Università dell'Iowa che da decenni studia il caso della capitale indiana. Attualmente Carmichael presiede il gruppo consultivo del Global atmospheric watch urban meteorology and environment dell'Organizzazione meteorologica mondiale: «Se anche si azzerassero gli incendi di campi, questo non basterebbe, come non basterebbe ridurre solamente emissioni degli inceneritori». Ma un’azione congiunta, da un punto di vista politico e amministrativo, è complessa - a maggior ragione a fronti di scontri tra l’attuale governo della capitale, che nel 2025 andrà al voto, e il governo centrale.
Per il momento, le azioni delle autorità si limitano a sparare acqua con idranti e tentare di provocare artificialmente della pioggia tramite il cosiddetto cloud seeding: «Gli idranti sono inefficaci oltre i primi 30-60 minuti e la significativa carenza d’acqua che vive la città li rendono una soluzione inadatta. Possono giusto avere senso nei cantieri». Quanto al cloud seeding, secondo Krishna «non solo servono precise condizioni meteorologiche affinché sia efficace, ma il timore è che le sostanze chimiche utilizzate per “seminare” le nuvole provochino danni alla salute».
Secondo Carmichael, il prezzo dell’inazione sarà elevato: «Servono una migliore gestione dei rifiuti e delle discariche, ma anche prevenire il fenomeno della combustione dei rifiuti». Poche settimane fa, ricorda, una inchiesta del New York Times ha mosso accuse contro l’impianto di combustione dei rifiuti di Timarpur-Okhla della capitale, ma ha anche puntato il dito contro gli organismi che regolano il fiorente settore della termovalorizzazione nazionale. «Poi bisogna agire sulle emissioni delle piccole industrie che circondano la capitale. E sulle emissioni domestiche». Due terzi della popolazione indiana cucina usando carbone, cherosene e fiamma viva: tra il 20 per cento e il 50 per cento dell’inquinamento urbano è frutto di queste fonti.
Una questione globale
«Ho lavorato a Mexico City e a Pechino, che hanno subito livelli record di inquinamento urbano fino a quando la classe media si è ribellata e i governi hanno capito che la situazione ne minava la reputazione internazionale» continua Carmichael. Il quale ricorda che quella di Delhi è una questione di interesse globale: secondo lo studio Striving for clean air: air pollution and public health in South Asia della Banca Mondiale, 37 delle 40 città più inquinate al mondo si trovano nell’Asia meridionale.
E poiché l’inquinamento atmosferico viaggia su lunghe distanze, dal Pakistan si sposta sull’India e dall’India si travasa sul Bangladesh: solo attraverso la cooperazione tra macro-aree sarà possibile sperare in un cambiamento positivo per la vita (e la salute) di milioni di cittadini.
Carmichael, che ha partecipato a Cop28 a Dubai, spiega che in quell’occasione l’India ha deciso di non firmare la Dichiarazione su Clima e Salute perché sostiene di non voler mettere a rischio lo sviluppo della nazione. Parliamo di una nazione che ospita 300 milioni di persone che vivono in condizioni di estrema povertà e senza un efficiente accesso all’elettricità, ricorda Krishna: «Il modo più economico per fornire loro energia è attraverso il carbone. Finanziare il cambiamento non solo è costoso, richiede il supporto economico di nazioni più sviluppate». Ma come insegna Cop29, la strada è ancora lunga.
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