L’unico parroco cattolico della Striscia di Gaza, ha riabbracciato la piccola comunità. «L’Idf ha sparato anche a due donne cattoliche. Ogni sera ricevo una chiamata di conforto da Francesco»
Padre Gabriel Romanelli, argentino di origini italiane, è l’unico parroco cattolico della Striscia di Gaza. La sua parrocchia intitolata alla Sacra Famiglia si trova nel quartiere al Zaitoun di Gaza city (a nord della Striscia) e oltre a fedeli cattolici è riferimento per centinaia di ortodossi e accoglie un gran numero di profughi.
Le cifre prima dello scoppio del conflitto dicevano che dei 2,3 milioni di gaziani, 1020 erano cristiani, in stragrande maggioranza ortodossi. Ora, tra morti ed esuli, sono ridotti a 621. Padre Gabriel per una coincidenza drammatica è rimasto lontano dalla sua parrocchia per oltre sette mesi. Il suo ritorno da Gerusalemme dove era per alcuni incontri, era previsto il 7 ottobre ma era stato rinviato di un giorno.
Gli attentati di Hamas e l’inizio del conflitto hanno portato alla decisione, da parte della autorità israeliane, di sospendere tutti i permessi di rientro e il sacerdote, che sarebbe dovuto tornare l’8 ottobre, è rimasto bloccato nella città santa senza possibilità di movimento.
Dopo sette lunghissimi mesi, approfittando della visita a Gaza del patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Padre Romanelli ha potuto fare rientro. Dallo scoppio della guerra ha ricevuto ogni singolo giorno telefonate dal papa che si informa quotidianamente della situazione e chiede aggiornamenti sui fedeli e sui cittadini sotto assedio a Gaza.
Tornato a Gaza ha trovato una situazione drammatica che ha portato i cattolici di Terra Santa proprio in questi giorni a prendere una durissima posizione per bocca della Commissione Giustizia e Pace: «Siamo indignati dal fatto che gli attori politici in Israele e all'estero stiano utilizzando la teoria della “guerra giusta” per perpetuare e legittimare la guerra in corso a Gaza».
Padre Gabriel, cosa è significato il ritorno dopo tanto tempo e che comunità ha trovato al suo rientro?
Dopo lunghissimi mesi è stata per me una gioia infinita poter ritornare. A dispetto di quanto si possa immaginare ho trovato una comunità molto viva, anche se, per tanti motivi, è molto cambiata. Da una parte perché tanti se ne sono andati, specie quelli in possesso di doppio passaporto, poi perché ci sono stati 37 morti tra i fedeli, molti dei quali a causa di bombardamenti, in particolare quello che ha devastato la chiesa greco ortodossa. Un cecchino dell’Idf, inoltre, ha ucciso due donne cattoliche proprio qui nel compound della mia parrocchia e ci sono stati tanti feriti. Se c’è una cosa che mi ha colpito al ritorno, però, è aver trovato un senso di resilienza sempre molto forte, purtroppo qui siamo abituati a tante guerre e tante difficoltà. Credo che la visita del Cardinal Pizzaballa che è coincisa con il mio ritorno abbia confortato molti. Nessuno era riuscito a fare visita alla gente di qua prima, ed è stato per tutti un bel segno.
Come si vivono la parrocchia e la fede in un contesto di guerra durissima, come gestite le attività pastorali e sociali?
La comunità è molto devota, prima della guerra aravamo 135 cattolici ma la nostra parrocchia è sempre stata molto frequentata anche da fedeli greco-ortodossi, tanti di loro partecipano alle attività e ai gruppi parrocchiali. Durante la guerra abbiamo continuato a celebrare messa ma con il grosso problema del vino: in genere arriva da fuori Gaza e da otto mesi abbondanti qui è difficile fare arrivare tutto, figuriamoci il vino. Devo dirle però che qui c’è sempre tanta gente, è una specie di oasi, la gente entra, prega, parla con noi o si ritira in disparte a parlare con Gesù. È ovvio che le attività sono molto difficili a causa dei continui bombardamenti, che proseguono anche adesso, mentre parlo con lei. La gente non può uscire, il nostro quartiere al momento è piuttosto tranquillo ma le bombe cadono a un centinaio di metri da noi e anche se non fanno vittime, terrorizzano costantemente la popolazione. Abbiamo già da tempo riattivato l’oratorio e stiamo cercando di organizzare al meglio le attività per i bambini, facciamo incontri ogni pomeriggio a seconda dell’età e, per quanto possibile, giochiamo. Sì lo so, può suonare strano, ma una delle nostre priorità è garantire la salute fisica e quella mentale e il gioco è uno strumento straordinario. Nel frattempo i nostri volontari si sono organizzati per fare lezioni ai bambini e ai ragazzi che non vanno a scuola da ottobre. Lei si immagini alcuni dei nostri locali mentre i droni rilasciano bombe e si sentono gli spari, pieni zeppi di giovani che fanno lezioni di arabo, inglese, matematica e scienze: in mezzo a questa follia, un po’ di stabilità. L’anno scolastico per tutti gli studenti è ovviamente perso ma almeno cerchiamo di non fargli perdere l’abitudine a studiare. Il popolo palestinese è molto colto e istruito, ama l’educazione sia qui a Gaza che nella West Bank, il livello è molto alto.
È vero che il papa la chiama ogni giorno?
Sì assolutamente vero, anche quando ero a Gerusalemme. Il Santo padre alle 8.00 di sera mi chiama e domanda a me e al mio vice Padre Youssef notizie. Ci ringrazia per quello che stiamo facendo, per la testimonianza che offriamo e ci chiede di prenderci cura in particolare dei bambini. Si rallegra per piccoli episodi che accadono giornalmente e vuole sapere tutto. Ormai è una tradizione e i fedeli stessi si radunano qui da me in attesa della telefonata. Portano i bambini, fanno sentire al papa la loro voce o chiedono preghiere. È una breve telefonata ma molto importante, un sostegno enorme.
Ora che è tornato per restare, come pensa di riorganizzare la vita della parrocchia in una situazione così drammatica?
C’è tantissimo da fare. Qui abbiamo ospitato fino a 700 sfollati, ora ce ne sono 500, una situazione molto pesante perché si tratta di famiglie che avevano ottime sistemazioni abitative e che ora si ritrovano senza nulla. Vivono ammassati in una scuola, devono cucinare o usare i servizi a turno. Noi poi curiamo la distribuzione di beni di prima necessità anche fuori dalla nostra area, circa 1600 famiglie povere e gestiamo un ambulatorio esterno e uno interno al quartiere. Ma qui ogni cosa è complicata, anche un bicchiere d’acqua: dove la trovi, come la purifichi? L’elettricità praticamente non c’è da otto mesi, i pannelli solari sono quasi tutti distrutti e il diesel è molto costoso. E consideri che non siamo neanche la situazione più drammatica, ci sono persone che stanno molto peggio di noi, senza cibo, acqua né medicine.
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