- A preoccupare i Pasdaran è il carattere impolitico della protesta. Dalla crisi del velo, con i suoi intricati nodi religiosi, può rinascere il progetto di Ahmadinejad.
- Dopo la scomparsa di Khamenei affidare la guida del paese a un khomeinismo senza clero farebbe di fatto della repubblica islamica un regime militare
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Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
La rivolta innescata in Iran dalla morte della “mal velata” Masha Amini ha prodotto una grave crisi nella repubblica islamica. Chi manifesta non chiede una correzione di rotta del “sistema”, ritenuta ormai impossibile, ma la sua fine. A sua volta il regime, messo in discussione in uno dei suoi cardini fondativi, il controllo politico sul corpo femminile, reagisce pesantemente.
Le “mal velate”
Secondo i conservatori religiosi, nocciolo duro del potere, è “l’ordine della purezza”, simboleggiato dal velo che separa ciò che deve restare separato, l’universo maschile da quello femminile fuori dalla dimensione familiare che le “mal velate” mettono in discussione con la loro “ostinazione” a scoprire i capelli, a indossare abiti dai colori sgargianti e “proibiti”, a integrare in una mise che si richiede “modesta”, un sistema dei segni che evocherebbe quella sensualità e quella sessualità che la copertura intende neutralizzare.
Le “mal velate” sono ritenute artefici di una resistenza alla “morale di stato” da stroncare perché la femminilità non più occultata minaccia insieme la coesione della comunità maschile, che sul controllo sociale del corpo femminile fonda la sua unità, e l’ordine islamico. Uno dei più inquietanti fantasmi dei turbanti, la seduzione che diventa sedizione, diventa un male da “curare” con ogni mezzo.
Per i fautori della linea dura, però, le cose sono complicate dall’originario pronunciamento di Khomeini. Consapevole del loro ruolo nella rivoluzione, il grande ayatollah aveva detto nel 1979: le donne possono andare ovunque e fare ogni cosa, purché velate.
Nella biopolitica islamista il velo obbligatorio e indossato in maniera stringente è, dunque, la barriera contro l’erosione dei principi religiosi causata dall’accesso delle donne alla sfera pubblica e a quello delle relazioni private extrafamiliari. Nella repubblica islamica le donne godono dell’elettorato attivo e passivo, fanno politica, sono la maggioranza di chi ha la laurea, svolgono anche professioni diverse da quelle, considerate tipicamente femminili, di cura e istruzione. Non è casuale che il loro corpo sia ciclicamente oggetto di conflitto e termometro dei rapporti di forza tra le diverse fazioni di regime.
Fazioni in tensione
La repubblica islamica, infatti, è un’oligarchia di fazioni, strutturata di fatto in veri e propri partiti ritenuti legittimi se si riconoscono nel “sistema”. Attori che agiscono in una complessa cornice istituzionale imperniata su organi a legittimazione politica, come il presidente della Repubblica o il parlamento, e organi a legittimazione religiosa, come la Guida suprema o il Consiglio dei guardiani. Quando, come oggi, dominano i conservatori religiosi e gli organi a diversa legittimazione riflettono questa omogeneità politica, gli spazi delle donne si restringono. Una ciocca di capelli fuori dal velo può, allora, causare una durissima reazione.
La nuova tensione attorno al controllo del corpo femminile, rivela, però, alcune discontinuità. La prima riguarda l’impolitica incoscienza delle protagoniste della rivolta. Contrariamente alle loro madri o sorelle maggiori, rifluite nel privato per proteggere la residua libertà o perché deluse dalle fazioni nelle quali avevano sperato, paralizzate dall’esibizione della forza da parte dei conservatori ma anche dalla convinzione che il sistema andasse riformato e non demolito, la nuova generazione scesa in piazza, globalmente connessa e cresciuta fuori da ogni orizzonte politico, non è gravata dal fardello della memoria e dalle ipoteche del passato.
Condizione che rende, insieme, forte e debole una protesta che innalza il livello della sfida ma soffre di una mancanza di leadership e organizzazione che le consenta di restare in scena malgrado la repressione. Dimensione che differenzia un moto da un movimento, una rivolta da una rivoluzione.
La seconda è l’assenza di una sponda politica nelle fazioni in passato beneficiarie, anche elettoralmente, delle mobilitazioni contro i conservatori religiosi, oggi ridotte alla marginalità. Sponda che costituiva, allo stesso tempo, una protezione e un vincolo, dal momento che quelle fazioni, per timore o scarsa convinzione, non portavano sino in fondo lo scontro.
La sconfitta dei riformisti
È accaduto tra il 1997 e il 2005, con i riformisti raggruppati attorno al presidente Khatami; e nel 2009, con la protesta dell’Onda verde contro i brogli elettorali che sanciscono la vittoria del presidente uscente Ahmadinejad contro Mousavi, erede designato dell’ormai frantumato, deluso, blocco politico e sociale khatamista. Khatami e Mousavi, così come il leader della corrente pragmatica Rafsanjani, che nella circostanza prende le distanze dalla repressione, erano tutti figli della repubblica islamica.
Figli divorati dalla rivoluzione divenuta regime ma pur sempre figli. Si distinguevano dai conservatori per i mutamenti che intendevano perseguire, non per la volontà di cambiare il “sistema”, tenacemente difeso dall’ala dei khomeinisti in turbante che si percepivano come l’“autentica” espressione della repubblica islamica.
In nome di quella stessa “autenticità” i conservatori religiosi non hanno esitato a sbarazzarsi della destra radicale di Ahmadinejad, diffusa tra quella generazione del fronte che si era sacrificata nella guerra contro l’Iraq, immolandosi, fascia in fronte e “chiavi del paradiso” al collo simbolo dei “martiri”, negli assalti suicidi di massa condotti attraverso i campi minati, nei quali si facevano esplodere per aprire i varchi ai confratelli che li seguivano con la baionetta innestata.
Una destra, quella radicale, fedele al “sistema” ma fautrice di un khomeinismo senza clero, che puntava a sostituire i turbanti, ormai infiacchiti dall’esercizio del potere e senza più tensione rivoluzionaria, con gli “elmetti”, i Pasdaran, i Basiji, i reduci decisi a regolare i conti con il “fronte interno”, quello dei “traditori” accusati di non aver creduto sino in fondo nella vittoria e “costretto” Khomeini a accettare una tregua con Saddam Hussein vissuta come una sconfitta. Come è noto, non è andata così.
Le sciabole dei Pasdaran
Una volta esaurito il compito di sbarrare brutalmente la strada ai riformisti sul loro stesso terreno, quello della mobilitazione politica, i conservatori religiosi si sono cinicamente liberati anche di Ahmadinejad. L’inconfessabile pegno nei suoi confronti è stato saldato proclamandolo vincitore di un’elezione che aveva perso e trasformandolo in ostaggio politico senza futuro.
Quando le tensioni minacciano di mettere a rischio la repubblica islamica sono sempre i Pasdaran, fedeli al compito di “difendere la Rivoluzione e le sue conquiste”, a far udire il “tintinnar di sciabole”. I guardiani della rivoluzione sono usi a lanciare avvertimenti contro quanti, a loro dire, minacciando di far deragliare il “sistema”.
È toccato ai riformisti, accusati di “gorbaciovismo”; agli “elementi deviati” che guidavano le imponenti manifestazioni dell’Onda; persino alla destra radicale, quando spingeva su una linea “antimperialista e antisionista” che rischiava di condurre il paese a uno scontro militare che avrebbe messo in discussione la sopravvivenza della stessa del regime. Lo hanno fatto, nuovamente, nell’ottobre 2022, dichiarando chiuso il tempo di proteste che sono parse pericolosamente saldare le fratture, di genere, generazionali e etniche, della società iraniana.
La possibile svolta
Al di là delle ricorrenti teorie del complotto, è proprio il carattere impolitico della protesta a preoccupare i Pasdaran. L’assenza di una leadership capace di vedere i rischi dello scontro frontale, e di una fazione di sistema sulla quale premere, può costringerli a intervenire, con esiti prevedibili sul piano repressivo ma non su quello politico. I più anziani tra loro hanno già visto trionfare una “rivoluzione con le mani nude” anche se, ai tempi dello shah, erano dall’altra parte della barricata.
Un intervento diretto rischierebbe di interrompere la lenta marcia sul crinale di una suggestione mai del tutto accantonata, che la crisi del velo, con i suoi intricati nodi religiosi, fa riemergere: dare forma loro stessi, sia pure sotto le vesti di una diversa linea, al progetto di Ahmadinejad. Guidare il “sistema”, dopo la scomparsa di Khamenei, ultimo esponente di primo piano degli antichi compagni di Khomeini, a quel khomeinismo senza clero che, in una sorta di “svolta algerina”, farebbe di fatto della repubblica islamica un regime militare.
Un khomeinismo con le stellette, diverso da quello ispirato al “governo del dotto islamico” o da quello populista e antimperialista della destra radicale. Espressione di un realismo politico in divisa, capace di articolare un nazionalismo farsi in grado di elevare la nazione a rango di potenza riconosciuta portare a compimento quello che è sotto gli occhi di tutti: il passaggio a un ordine che al Dio della Devozione ha sostituito il Dio del Politico.
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