- Con la strage di Kabul, che ha inflitto la più grave perdita alle forze armate americane dal 2011, lo Stato Islamico è tornato protagonista del terrorismo globale.
- Le domande da porci sono due, riguardano le capacità dell’Isis di conquistare spazio in Afghanistan e se questo possa costituire una minaccia diretta all’Occidente.
- Lo Stato Islamico del Khorasan e i Talebani hanno progetti politici incompatibili: il primo vuole instaurare un califfato globale che unisca tutti i musulmani sunniti, mentre i secondi si limitano a voler ristabilire l’Emirato Islamico dell’Afghanistan
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Autore: Ameer Al Mohammedaw/picture-alliance/dpa/AP Images
Con la strage di Kabul, che ha inflitto la più grave perdita alle forze armate americane dal 2011, lo Stato Islamico è tornato protagonista del terrorismo globale. Lo ha fatto al di fuori dell’area siro-irakena. Nonostante il travolgente successo talebano, l’Afghanistan potrebbe essere terreno fertile per la rinascita del gruppo jihadista.
Le domande da porci sono due, riguardano le capacità dell’Isis di conquistare spazio in Afghanistan e se questo possa costituire una minaccia diretta all’Occidente. Lo Stato Islamico del Khorasan e i Talebani sono in conflitto perché competono sullo stesso territorio e hanno progetti politici incompatibili: il primo vuole instaurare un califfato globale che unisca tutti i musulmani sunniti, mentre i secondi si limitano a voler ristabilire l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. In questa competizione, Al Qaeda è saldamente alleata dei suoi protettori Talebani e ne riconosce il leader, mullah Hibatullah Akhundzada, come autorità suprema e Capo dei Credenti.
Lo Stato Islamico nel Khorasan (Iskp o Is-K che dir si voglia) è stato seriamente indebolito dall’azione congiunta di Talebani e droni Usa. Secondo uno studio pubblicato dal Centro antiterrorismo dell’Accademia di West Point, tra il 2015 e il 2019 il gruppo ha perso 548 comandanti, uccisi e catturati. Tra questi figurano i sei leader del gruppo, tutti locali, sostituiti a giugno 2020 per la prima volta da un arabo forse siriano, Shahab al Muhajir (alias Sanaullah).
Prima della sua nomina, al Muhajir era il responsabile degli attacchi suicidi e questo ha contribuito a inasprire le tattiche di Iskp. Secondo la missione delle Nazioni Unite, nei primi quattro mesi del 2021 l’Iskp ha compiuto 77 attacchi, mentre dall’aprile 2020 al marzo 2021 ne sono stati registrati 115 e nell’anno prima 572. Perciò si tratta di un notevole declino numerico, compensato forse da obiettivi più ambiziosi come dimostrano le carneficine di Kabul.
Shahab al Muhajir è stato scelto dal califfo successore di Al Baghdadi, l’irakeno Abu Ibrahim al Hashimi al Qurashi, ma la comunicazione tra i due è estremamente complessa, per mezzo di corrieri e intermediari. Quindi la casa madre ha creato degli “uffici regionali” incaricati di coordinare l’attività.
L’ufficio al Sadiq gestisce le filiali del Khorasan, di India, Bangladesh, Sri Lanka e Maldive, così come l’analogo maktab al Karrar coordina gli attacchi jihadisti in Somalia, Mozambico e Repubblica Democratica del Congo. Il diretto superiore di al Muhajir e capo dell’ufficio al Sadiq è identificato da un rapporto delle Nazioni Unite come Sheikh Tamim, che ha preso il posto di un altrettanto misterioso Abu Omar Khorasani.
Le filiali dell’Isis
Attualmente lo Stato Islamico può contare su filiali e simpatizzanti in almeno una dozzina di paesi. Ovviamente ciò che resta della struttura originaria in Iraq e Siria, ma anche in Nordafrica e nella Penisola arabica, spingendosi fino al Caucaso, in Nigeria, all’Asia Centrale e persino nelle Filippine, con i più recenti gruppi nati in Mozambico e Congo.
Naturalmente, in alcuni paesi dispone di insorti armati che controllano porzioni di territorio, come Boko Haram e lo Stato Islamico nel Sahara, mentre in altri si limita a piccole cellule segrete. La principale differenza organizzativa con Al Qaeda deriva dal controllo delle filiali, più rigoroso da parte dello Stato Islamico, più decentralizzato e autonomo per l’organizzazione di Ayman al Zawahiri.
Ma torniamo all’Afghanistan e al ruolo dell’Isis. Proviamo a immaginare una possibile strategia per guadagnare terreno. Al Muhajir potrebbe procedere in parallelo, da un lato con una campagna di attentati a Kabul e contro la minoranza sciita per radicalizzare la popolazione e scatenare una reazione a catena, dall’altro con operazioni tese a conquistare terreno.
L’Iskp trae origine dai talebani pakistani del Ttp e non è un caso che abbia le sue roccaforti nelle province di Kunar e Nangarhar, al confine con gli ex territori tribali del Pakistan. Ma è anche presente nella provincia di Jowzjan, vicino a Turkmenistan e Uzbekistan, da dove sono arrivati rinforzi dell’Islamic Movement of Uzbekistan. Nella regione di Kunduz può contare su jihadisti tagiki e uiguri, con alcune cellule a Mazar-e Sharif.
L’assedio dell’Iskp ai Talebani
Questa strategia di rimonta vedrebbe l’Occidente quasi inerme, perché ha abbandonato tutte le basi nel paese da cui operare. L’Iskp potrebbe cominciare dalle province in cui i Talebani sono più deboli o magari quelle in cui si sovrappone la resistenza di Massoud e Saleh, replicando le tecniche usate in Iraq con omicidi mirati di comandanti talebani o matrimoni con le figlie dei capi clan pashtun.
Quest’ultima è una pratica in uso anche da parte di Al Qaeda in Afghanistan. Il passo successivo sarebbe quello di dividere i Talebani, creando conflitto tra le varie fazioni interne, dalla rete Haqqani a quelli del nord, i talebani tagiki di Jamaat Ansarullah (incaricati da Baradar dei controlli di frontiera).
Il dissidio tra correnti potrebbe spingere gruppi a lasciare l’Emirato ed entrare in Iskp, proprio come fecero esponenti del Ttp nel 2015. Se guardiamo a quanto successo nella guerra civile siriana, è possibile che masse di miliziani passino in blocco da una sigla all’altra, seguendo il proprio comandante: cuius regio, eius religio.
Quelli che oggi sembrano fedelissimi seguaci del mullah Hibatullah Akhazanda, domani potrebbero giurare fedeltà a Shahab al Muhajir, emiro dell’Isis nel Khorasan. Un mullah talebano della provincia di Nangarhar, deluso dalla mancata promozione, avrebbe già defezionato per l’Iskp con un centinaio di uomini.
I voltafaccia eclatanti e i cambi di bandiera sono all’ordine del giorno in Afghanistan, dove persino il fratello dell’ex presidente Karzai e il capo tribale anti-qaedista di Kandahar Gul Agha Sherzai hanno fatto atto di bayah all’Emirato Islamico.
Se l’Isis attivasse cellule dormienti a Kabul e in altre città potrebbe seminare il terrore e fare proseliti, benché parta da una situazione di assoluta inferiorità numerica. I Talebani non dispongono di aviazione e piloti per operazioni aeree nelle valli più impervie e remote che costituiscono i santuari di Iskp.
Quali pericoli per l’Occidente
Veniamo al secondo aspetto, la minaccia che una presenza consolidata di Iskp potrebbe costituire per l’Occidente. Non è detto che l’Isis riesca a creare una struttura in Europa, benché abbia ancora a disposizione uomini dell’Amni, l’intelligence jihadista, infiltrati dopo il crollo del califfato.
Le agenzie antiterrorismo europee sono in grado di smantellare cellule e gruppi più o meno grandi, ma singoli islamisti galvanizzati dagli attacchi di Iskp potrebbero radicalizzarsi e decidere in autonomia di passare all’azione, come la propaganda Isis ha spinto a fare in questi anni. Non va neppure sottovalutata la capacità del quadrante Af-Pak di infiltrare militanti addestrati per attacchi più complessi.
Molta attenzione è riservata agli arabi, mentre la minaccia all’Europa potrebbe arrivare da terroristi pashtun, tagiki, uzbeki, uiguri e turcofoni. Gli stessi talebani pakistani del Ttp, pur essendo leali ad Al Qaeda, furono responsabili di due piani, rispettivamente nel 2008 e nel 2010, per attaccare la metro di Barcellona e Times Square. Militanti uzbeki dell’Isis hanno già colpito in questi anni a Istanbul, San Pietroburgo, Stoccolma e New York. Mentre nel 2018 cinque jihadisti tagiki hanno investito e finito a coltellate quattro turisti occidentali nel paese centroasiatico.
L’anno dopo hanno assaltato un posto di frontiera con l’Uzbekistan, uccidendo 17 poliziotti. Quest’anno il governo del Tagikistan, su invito della Russia, ha schierato ventimila uomini addizionali al confine con l’Afghanistan e ha svolto una colossale esercitazione con 230mila uomini, seguito dall’Uzbekistan.
Inoltre, nel 2020 la Germania ha arrestato quattro tagiki dell’Isis che progettavano attacchi a basi Nato, dopo aver ricevuto istruzioni dall’Afghanistan e dalla Siria. Il rapporto delle Nazioni Unite menziona possibili piani dell’Iskp per attacchi in Europa, segnalati da uno stato membro. Una rinascita dell’Isis in Afghanistan potrebbe ridare slancio ad altre filiali, a cominciare dal Corno d’Africa e dal Sahel.
Se lo Stato Islamico nel Khorasan riuscisse a mettere in pratica la strategia ipotizzata, potrebbe rilanciare la causa globale dell’Isis, che a differenza di Al Qaeda mira ancora a colpire direttamente l’Occidente. Il ritiro totale delle truppe Nato dall’Afghanistan costituirà un vulnus all’azione antiterrorismo.
La safe zone su Kabul chiesta da Francia e Regno Unito al Consiglio di Sicurezza dell’Onu potrebbe diventare oggetto di continui attacchi se i Talebani non garantissero la loro protezione, già accordata ai turchi in cambio della gestione dell’aeroporto.
I paesi Nato potrebbero usare come assetti di intelligence humint (ntelligence basata su fonti umane sul terreno) parte dei collaboratori rimasti in Afghanistan, compresi quelli italiani bloccati ad Herat, per un’azione antiterrorismo più efficace che non si basi solo sulla signal intelligence e sui droni.
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