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“L’islam è la soluzione”, diceva la Fratellanza musulmana quando il trionfo globale della democrazia liberale sembrava inevitabile.
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Il successo e l’evoluzione dei partiti Islamici in medio oriente e nord Africa non riguarda la forza del richiamo religioso presso le società arabo-islamiche ma la gestione del potere all’interno delle autocrazie elettorali della regione.
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Il testo fa parte del numero di Scenari: Guerra in cielo.
“L’Islam è la soluzione” era lo slogan con cui i Fratelli musulmani si sono presentati alle elezioni in Giordania nel 1989. Nello stesso anno, il movimento islamico Ennahda si imponeva alle prime elezioni multipartitiche tunisine come la principale forza di opposizione e, in Algeria, il Fronte di salvezza islamico si stava affermando alle elezioni locali come la forza politica più potente del paese.
Sebbene non sempre siano riusciti a tradurre il loro peso politico in posizioni istituzionali – ad esempio, in Tunisia il regime di Ben Ali fu costretto a ricorrere a brogli elettorali per ridimensionare Ennahda e in Algeria i militari sospesero le elezioni politiche del 1990 trascinando il paese in una lunga guerra civile –, la prova di forza dei partititi islamici in nord Africa e medio oriente ha animato un acceso dibattito sia all’interno del mondo accademico, sia nell’opinione pubblica più generalista catalizzando l’attenzione dei media.
Fatta salva la rivoluzione iraniana del 1979, ci sono stati, nella regione, altri fenomeni altrettanto importanti che non hanno però avuto lo stesso impatto presso il grande pubblico o tra gli addetti ai lavori. Si pensi, ad esempio, alle proteste degli anni Settanta guidate dalla sinistra.
Motivi di successo
I motivi di questa popolarità attingono a due ordini di ragione. La prima è la forte carica suggestiva suscitata dall’imporsi della religione nella sfera pubblica in un mondo che, come teorizzato da Fukuyama (sempre nel 1989), sembrava aver finalmente abbracciato gli ideali occidentali per compiere il fine ultimo dell’evoluzione delle ideologie. I partiti islamici mettevano in discussione non solo la democrazia occidentale, che col crollo dell’Urss sembrava destinata a imporsi come la forma ultima e più compiuta di governance umana, ma anche il principio di secolarizzazione sotteso ai processi di modernizzazione e democratizzazione.
L’altra ragione per cui si è molto discusso della natura dei partiti islamici e delle ripercussioni di un loro ruolo nella sfera pubblica sta nel dilemma che hanno posto all’ideologia liberale. Se da una parte si legittimava una loro messa al bando per la minaccia che sembravano porre ai princìpi fondamentali della democrazia liberale (si pensi al principio di libertà e di non discriminazione religiosa), dall’altra una loro esclusione dalla sfera pubblica avrebbe privato milioni di persone di rappresentanza politica, minando così un principio democratico altrettanto basilare.
La forza dei partiti islamici della Fratellanza musulmana è sempre stata la loro trasversalità. Se dapprima si pensava che essi esercitassero una certa attrazione presso le fasce più indigenti e meno istruite della popolazione, più tardi è emersa la presenza del cosiddetto voto orizzontale; ovvero si è visto che il voto a partiti islamici era spesso correlato anche a un alto grado di istruzione e buoni standard di vita.
Studi più recenti hanno messo in luce come la popolarità dei partiti islamici affondi le sue radici nella struttura di potere che caratterizza le autocrazie elettorali della regione. Verso la metà degli anni Settanta, i regimi autoritari del nord Africa e del medio oriente hanno iniziato ad aprire le loro economie al resto del mondo e a introdurre istituti di democrazia, quali, ad esempio, parlamenti ed elezioni multipartitiche, per ricevere i finanziamenti condizionati del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
Tuttavia, l’esigenza di garantire che il controllo restasse nelle mani dei vari dittatori e delle loro cerchie impose l’adozione di contromisure. Tra queste vi fu la creazione di strutture di competizione non omogenee tra le varie forze politiche per indebolire quelle più influenti e facilitare la gestione del potere in chiave divide et impera.
Al tempo, i partiti più rilevanti erano quelli di sinistra, che controllavano il fronte dell’opposizione. Per incrinare questa loro egemonia e controbilanciarne il peso, molti regimi della regione hanno incoraggiato l’espansione dei movimenti islamici, il cui impegno, fino a quel momento, si concretizzava nella sola sfera sociale. Mentre da una parte alcuni partiti di sinistra (per lo più comunisti) venivano messi al bando, e ad altri veniva negato l’accesso ai sindacati e ad altri cruciali canali di mobilizzazione, dall’altra si lasciava correre l’espandere delle forze islamiche e il loro insediamento all’interno di associazioni di categoria, unioni studentesche e realtà produttive.
All’inizio degli anni Novanta, il risultato di questa politica di accomodamento selettivo fu la riduzione all’irrilevanza delle sinistre (che quando non totalmente represse erano co-optate dal regime) e l’imporsi dei partititi islamici come principale forza di opposizione (anche se spesso presenti nei parlamenti come indipendenti) grazie a un network ampissimo e diversificato. Dalle moschee al business passando per associazioni caritatevoli, unioni sindacali e studentesche. Pertanto, la forza dei partiti islamici registrata tra gli anni Novanta e le primavere arabe risiedeva nella loro capacità di arrivare a molteplici e diversi elettorati, e questo, in larga parte, grazie alle politiche autoritarie.
Verso la democratizzazione?
In ragione di questo consenso diffuso, studiosi autorevoli ipotizzavano che la strada per la democrazia liberale in medio oriente e nord Africa non potesse che passare per l’Islam politico. Il coinvolgimento dei partititi Islamici nella sfera pubblica li avrebbe portati ad abbandonare le istanze anti-sistemiche e anti-democratiche (come il rifiuto della democrazia e l’implementazione della Shari’a) che li contraddistinguevano e ad addivenire a posizioni più moderate al fine di raggiungere quanti più elettori possibili. Non solo questa dinamica avrebbe scongiurato uno scenario all’iraniana, ma avrebbe altresì democratizzato l’intero sistema perché i partiti islamici avrebbero riconosciuto i meriti della democrazia integrandone al contempo importanti fette di popolazione.
Queste posizioni teoriche erano mutuate dall’esperienza dei partiti comunisti nelle democrazie europee dopo la seconda guerra mondiale che, come i partiti islamici, rappresentavano una proposta politica anti sistemica rispetto allo status quo. La grande differenza che però rende non assimilabili i due casi risiede precisamente nel contesto in cui operano i partiti. Se da una parte vi erano regimi democratici, dall’altra vi sono regimi non democratici ed è difficile pensare che un adattamento dei partiti islamici alle regole del gioco autoritario sia foriero di atteggiamenti democratici.
I casi egiziano e tunisino
Emblematici i casi di Egitto e Tunisia. In Egitto, dove i Fratelli musulmani hanno partecipato per decenni alla vita politica dei regimi di Sadat e Mubarak, caduto quest’ultimo, durante la transizione essi – così come tutti gli altri partiti che godevano di uno status legale durante il precedente regime – hanno riproposto gli stessi contenuti (ovvero, politiche identitarie) e le stesse modalità (antagonistiche) che caratterizzavano la competizione politica autoritaria, dove il dittatore si poneva come il garante della sopravvivenza delle singole forze politiche in conflitto perenne tra loro, col risultato di non riuscire a elaborare una costituzione (democratica) condivisa tra tutte le forze politiche, innescando uno scontro che ha portato al colpo di stato del 2013.
In Tunisia, invece, Ennahda proveniva da un passato di messa al bando e repressione, così come gli altri partiti protagonisti della transizione e, secondo alcuni studiosi, è stata proprio questa comune esclusione a favorire la nascita di una vera alternativa al deposto regime di Ben Ali. Per Ennahda, il passaggio di contesto da un sistema autoritario a uno democratico, inaugurato con la Costituzione del 2014, ha portato allo storico congresso del 2016 in cui il partito è andato oltre l’Islam politico per adattarsi meglio al nuovo scenario.
Queste due esperienze, assieme ad altre, dimostrano che, sebbene guardando all’erosione della democrazia nel mondo non pare che essa sia – come sosteneva Fukuyama – l’approdo del nostro vivere civile, restando nel (seppur sdruccevole) lessico hegeliano, c’è ragione di credere che l’Islam politico che si pone in alternativa alla democrazia sia una categoria propria delle diverse fasi di sviluppo di molti autoritarismi in nord Africa e medio oriente, soprattutto di quelli che si legittimano mediante ideologie secolari. E che, pertanto, non ne sia né la soluzione, né tantomeno la causa (come vorrebbero alcune teorie culturaliste).
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