Il paese è in guerra da 13 anni: qui Usa e Russia si contendono la leadership dell’area. Ma anche israeliani, turchi, libanesi e iracheni hanno enormi interessi geopolitici
Il vasto attacco aereo israeliano condotto nei giorni scorsi nella Siria occidentale contro una presunta fabbrica di missili iraniani destinati, tra gli altri, agli Hezbollah libanesi, ha riportato, seppur in maniera fugace, la questione siriana al centro dell’attualità mediatica.
Eppure ogni giorno quello che avviene da anni dentro e attorno alla Siria provoca inevitabilmente degli effetti a catena, con ripercussioni evidenti in tutta l’area euro-mediterranea, inclusa la trincea est-europea, solcata dal più ampio confronto tra Stati Uniti e Russia.
Di questo ne sono prova le recenti quanto ricorrenti notizie di migranti siriani morti a largo delle coste italiane dopo aver tentato traversate in mare dalla Libia o dal Libano. Così come l’assalto all’arma bianca compiuto due settimane fa in Germania da un giovane siriano e che è costato la vita a tre persone.
A sole tre ore di volo dall’Italia, la Siria del regime di Bashar al-Assadè travolta da un conflitto che dura da più di tredici anni. È colpita da sanzioni finanziarie e commerciali occidentali ed è attanagliata dalla peggiore crisi economica della sua storia.
Tutto ciò genera una sofferenza collettiva e individuale della quale a noi giungono solo echi lontani, spesso distorti: sotto forma di atti rabbiosi di violenza politica (“terrorismo”), di atti disperati per mettere in salvo sé stessi e i propri cari, avventurandosi «nel più grande cimitero d’Europa», il mar Mediterraneo.
Questa lunga notte siriana è sempre più spesso illuminata dalle scie fluorescenti di raid aerei e di attacchi missilistici, rischiarata dallo scintillio dei bisturi maligni sfoderati nelle segrete camere di tortura riservati a dissidenti e oppositori.
Il silenzio di questo paese violentato è continuamente disturbato dal fischio dei mortai, dei sorvoli di droni suicidi e dalle raffiche di mitragliatori, disturbato dal fragore delle “bombe di precisione” lanciate negli “assassini mirati” e dallo scoppiettio dei colpi sparati nelle imboscate e nelle fucilazioni di prigionieri allineati in fila, in piedi, a guardare la fossa comune dove tra poco finiranno scomposti.
Questa Siria ci riguarda tutti. Anche perché tutti, o quasi, partecipano a questa danza macabra. Nella Siria in guerra sono presenti militarmente sia i russi che gli americani. Ci sono i turchi, membri della Nato, che con i loro ascari qaidisti, usati come mercenari nel Caucaso e in Nordafrica, fanno la guerra ai loro rivali curdi. Ci sono gli iraniani e i loro alleati palestinesi, libanesi, iracheni e, persino, afghani. A questo variegato fronte Israele risponde con raid aerei e d'artiglieria sempre più frequenti.
Tutti questi attori affermano di voler combattere “il terrorismo” e di voler mantenere “la stabilità e la sicurezza” della regione. Alcuni dicono di voler contenere il fenomeno migratorio. Altri evocano il rischio “migranti” e “terrorismo”.
Lo fanno sia per accreditarsi come pompieri dell’incendio regionale, sia per spillare alla complice Unione europea altri milioni di euro da destinare sottobanco alla gestione del potere clientelare.
Da una prolungata e attenta osservazione delle dinamiche siriane e mediorientali è invece evidente che tutti questi attori, inclusi i loro referenti siriani, operano sul terreno con l’obiettivo di spartirsi la succulenta torta delle risorse – non solo energetiche, ma anche umane, socio-economiche e politiche – di un territorio chiave, incastonato nella cerniera euro-afro-asiatica.
Gli Stati Uniti da dieci anni sono presenti nel nord e nel nord-est siriani. Quasi ogni giorno le basi Usa ricevono rifornimenti logistici dalle basi militari americane sparse nel vicino Kurdistan iracheno, oltre il fiume Tigri. Washington guida dal 2014 la cosiddetta Coalizione internazionale anti Isis, di cui fa parte l’Italia. E sostiene le forze curdo-siriane, vicine al Partito dei lavoratori curdi (Pkk), storico rivale di Ankara.
Le basi americane in Siria sono state quasi tutte erette in prossimità dei campi petroliferi a est del fiume Eufrate. Qui, le milizie curde faticano a tenere a bada la mai sopita insurrezione locale, che considera americani e curdi come degli occupanti da cacciare. Al netto della retorica elettorale contrapposta tra repubblicani e democratici, gli Stati Uniti sembrano intenzionati a rimanere in Siria, anche dopo le prossime presidenziali.
Sulla riva occidentale dell’Eufrate sono attestati iraniani, russi e governativi, in un mix politico-militare dagli equilibri delicati e in continua revisione.
Mosca, alleato pluridecennale di Damasco, si coordina a livello tattico con tutti gli attori sul terreno: con Israele, quando i jet dello Stato ebraico si alzano in volo per colpire le postazioni iraniane a due passi da quelle russe; con l’Iran, quando i pasdaran muovono le loro pedine per difendere il corridoio logistico che porta al Libano; con gli Stati Uniti, seppur in maniera indiretta, per la spartizione delle aree di influenza nel nord-est; con la Turchia, per condurre pattuglie congiunte nel nord.
Proprio la Russia da mesi sta cercando di riportare alla normalità le relazioni, un tempo cordiali, tra Damasco e Ankara. Nei giorni scorsi al Cairo, in occasione del vertice ministeriale interarabo, il ministro degli Esteri turco Akan Fidan era stato invitato proprio per tentare di facilitare l’incontro col collega siriano Faysal Miqdad.
Quest’ultimo però ha lasciato l’aula proprio quando la delegazione turca è intervenuta alla riunione. Un gesto per certi aspetti inatteso, soprattutto dopo le recenti aperture da parte del presidente siriano al Assad per il ripristino di un dialogo politico con la Turchia.
Un’eventuale normalizzazione tra Damasco e Ankara suscita inquietudine sia tra i curdo-siriani del nord-est sia tra i potentati politico-militari siriani del nord-ovest: entrambi temono che un’alleanza tra Assad e il presidente turco Erdogan possa dare il via alla tanto attesa reconquista governativa delle ricche regioni nord-orientali, e degli strategici distretti di Idlib.
In questo contesto, insorti affiliati all’Isis hanno rialzato la testa lungo l’Eufrate con un aumento delle operazioni contro governativi e forze curde. La cosiddetta lotta al terrorismo è un vecchio leitmotiv del raìs Assad, il quale punta, soprattutto, a guadagnare tempo, per rafforzare la sua precaria posizione e riguadagnare legittimità.
È una strategia che finora sembra portare i suoi frutti. Nelle prossime settimane l’Italia – primo paese del G8 a compiere una simile mossa – riporterà a Damasco un ambasciatore, il navigato Stefano Ravagnan, già inviato speciale per la Siria.
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