Il viaggio in macchina lungo il litorale israeliano nella direzione del confine libanese attraversa un paesaggio mediterraneo immerso in una calma surreale. Anche quando l’escalation più violenta della storia del conflitto fra Israele ed Hezbollah non si manifesta rimane comunque in agguato, pronta a colpire ovunque all’improvviso. Anticipata dalle sirene che segnalano i razzi di Hezbollah in arrivo.

Le cittadine israeliane diventano sempre meno animate man mano che si procede verso nord, ma le strade non si svuotano mai del tutto. Soltanto dopo il villaggio di Rosh Hanikrà, a poche centinaia di metri dal cancello di confine, un posto di blocco dell’esercito costringe la nostra macchina a fare marcia indietro.

Il sole si specchia sul mare che solo due anni fa era stato al centro di uno storico accordo sulle acque territoriali fra Israele e Libano: doveva consentire la spartizione delle risorse energetiche e fare da precursore a un possibile riconoscimento del confine di terra, ma oggi è un dettaglio dimenticato. Da Beirut piuttosto arrivano aggiornamenti agghiaccianti sul numero di vittime provocate dai raid aerei israeliani: oltre 500 da quando il governo Netanyahu ha deciso di rilanciare l’offensiva nel dodicesimo mese di guerra.

A est di Rosh Hanikrà, alle pendici delle colline su cui scorre la barriera di confine israeliana, sorge il villaggio fantasma di Shlomi. Fra le case vuote e le macchine abbandonate incontriamo un uomo nerboruto, con una barba nera curata, che presidia l’unico supermercato aperto nella zona. «Non rinuncio ad aprire il negozio», dice il trentacinquenne di Shlomi Issa Tomas, maglietta nera e avambraccio tatuato. «Ogni giorno rimango fino alle 19, poi torno a dormire da mia moglie e dai miei tre figli che sono sfollati a Nahariya». Nel corso della giornata gli hanno fatto compagnia solo due allarmi, ed è subito chiaro che ha voglia di chiacchierare.

Issa, l’ultimo israeliano del villaggio di confine abbandonato sotto il fuoco di Hezbollah, in verità è un cattolico libanese. La sua storia fa luce su uno degli sbocchi possibili di questa guerra. Suo padre, racconta mentre batte i prezzi sulla cassa, faceva parte dell’Esercito del Sud del Libano, una milizia che dagli anni ‘80 fino al 2000 ha combattuto a fianco di Israele nel sud Paese dei Cedri. In particolare, fra il 1985 e il ritiro israeliano nel maggio 2000, questo gruppo armato locale facilitava l’occupazione israeliana della cosiddetta “fascia di sicurezza”, con cui l’Idf cercava di proteggere le appendici settentrionali dello Stato ebraico.

«Quando è iniziata la guerra, mi ha riportato subito la memoria a quando ero bambino», racconta Issa. «Noi Hezbollah lo conosciamo fin da piccolini». Il padre di Issa, infatti, all’epoca della fascia di sicurezza era impegnato in azioni contro la guerriglia anti-israeliana di Hezbollah e dei militanti palestinesi. Quando Issa aveva 12 anni, però, il primo ministro israeliano Ehud Barak, quasi senza preavviso, ha annunciato il ritiro israeliano. Circa 6.000 libanesi di questo gruppo, noto in Israele come “Zadal” rischiavano di ritrovarsi alla mercé dei miliziani nemici, senza la copertura dell’Idf. Hanno implorato asilo e infine ottenuto la cittadinanza israeliana.

All’epoca il pubblico israeliano era quasi unanime nel considerare senza senso lo stillicidio dello scontro con Hezbollah nella zona di sicurezza. Ma ora nelle ambasciate di Tel Aviv e nei corridoi dei palazzi del potere a Gerusalemme le parole “ezor bitahon”, cioè zona cuscinetto, sono di nuovo di moda. Tale esito è uno sbocco verosimile delle prossime fasi di questa guerra senza fine.

Israele invaderà? E poi tornerà ad occupare un pezzo di Libano, come è tornato ad occupare Gaza? Tomas, come spesso accade coi libanesi di questo gruppo, è visceralmente ostile ai connazionali di Hezbollah. «Per me qui fuori, dove passa quel muro, c’è l’Iran», dice indicando la collina fuori dal negozio. «È la frontiera con l’Iran», ripete alludendo al rapporto strettissimo fra la milizia sciita libanese e Tehran. «Spero che li finiamo una volta per tutte, se lo meritano», continua.

E ancora: «Meglio se li colpiamo dall’aria, così non mettiamo in pericolo i soldati». Mentre la prima generazione di “zadalnikim” è rimasta nostalgica del Libano, e si è inizialmente dispersa in Stati Uniti, Canada, Francia e in altri paesi occidentali, la seconda generazione è più integrata in Israele. Spesso i giovani prestano servizio nelle sue forze di sicurezza: Issa, per esempio, ha fatto parte dell’unità di élite dell’esercito israeliano “Golani”. «Questo è il mio Paese, io non guardo indietro», spiega. Tornare in Libano era diventata una prospettiva impensabile. Ma chissà ora potrebbe tornarci, come il padre, al servizio dell’esercito israeliano.

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