A essere obiettivi lascia piuttosto perplessi il protagonismo giudiziario con cui il Sudafrica si erge a difensore del diritto internazionale promuovendo per la terza volta un referral contro Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia.

Non si vede in particolare molta coerenza nel suo intento di emergere nella leadership di un nuovo ordine internazionale incentrato sul Global South: il Sudafrica aderisce da tempo ai sistemi dei Brics e della Shanghai Cooperation Organization, sostenendo i loro promotori, due campioni delle libertà dei popoli e dei diritti civili e umani come la Federazione Russa e la Cina.

La decisione

Ma così è, e comunque le decisioni assunte dalla Corte dell’Aja vanno valutate a prescindere da chi le ha promosse, e per gli effetti che esse avranno comunque sulla crisi di Gaza. La Corte internazionale di giustizia, con sede all’Aja come la Corte penale internazionale ma con competenze non sulle responsabilità penali personali bensì sugli illeciti internazionali degli stati – e quindi sulle controversie fra stati – è stata chiamata per la terza volta da un referral del Sudafrica in relazione alle misure previste dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948.

I giudici della Corte sono ancora intervenuti in una fase “cautelare” tenendo conto delle sollecitazioni promosse dal Sudafrica per l’aggravarsi della situazione a seguito dell’ennesima richiesta di evacuazione rivolta a oltre un milione di rifugiati di Rafah , e hanno coinvolto nell’istruttoria Israele ascoltando le tesi difensive del suo giudice ad hoc Aharon Barak e dei legal advisor Gilad Noam e Tamar Kaplan Tourgeman.

La Corte con l’order n. 192 del 24 maggio 2024 (“South Africa v. Israel”) è quindi stata netta: nonostante ben due precedenti “avvertimenti” espressi in due ordinanze provvisorie (order del 26 gennaio e del 28 marzo 2024) Israele ha intensificato la campagna di bombardamenti che sta causando vittime tra la popolazione palestinese, di cui si sta deteriorando ulteriormente la situazione umanitaria perché costretta alla fame e a esodi forzati, e ora è minacciata dall’assedio di Rafah.

Da qui l’emissione di ulteriori misure in un terzo order con il quale 13 giudici (due soli i contrari, di cui uno è il giudice in rappresentanza di Israele) hanno imposto i seguenti obblighi a Israele: 1) cessare con immediatezza l’offensiva militare nel governatorato di Rafah e qualsiasi altra azione «che può infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita che potrebbero portare alla sua distruzione totale o parziale»; 2) mantenere l’apertura del valico di Rafah per non ostacolare la fornitura su larga scala di beni di prima necessità, servizi e ogni altra assistenza umanitaria; 3) consentire il libero accesso alla Striscia di Gaza da parte di qualsiasi missione d’inchiesta o altro organo investigativo incaricato dalle Nazioni unite di indagare sulle accuse di genocidio.

Va dunque chiarito che al primo punto della determinazione della Corte non sembra potersi leggere un’intimazione “totale” alla cessazione della violenza bellica, perché residuerebbero operazioni “mirate” purché non coinvolgano in maniera indiscriminata la popolazione civile. Ma questo ordine è rimasto per ora inascoltato.

Le tesi di Israele

È bene in ogni caso ricostruire le fasi del procedimento partendo dalle tesi difensive. I giuristi israeliani hanno confermato l’evacuazione di civili da Rafah, ma a loro avviso «resta il fatto che la città di Rafah funge da roccaforte di Hamas», che mantiene 132 ostaggi a languire nei tunnel e dunque continua a rappresentare una «minaccia significativa per lo stato di Israele e i suoi cittadini».

Sono state quindi respinte le accuse del Sudafrica di aver chiuso i valichi di frontiera e di non avere agevolato l’approvvigionamento di carburante per sostenere le operazioni umanitarie, sostenendo al contrario di avere alleviato la situazione umanitaria con l’apertura del nuovo valico terrestre a Erez West e di un molo galleggiante al largo della costa di Gaza operativo dal 17 maggio 2024 – in verità criticato da molti osservatori indipendenti – e di avere riattivato gli ospedali dentro e fuori Rafah.

I difensori di Israele hanno poi ribadito la prassi usata dalle Forze di difesa israeliane di informare sempre i civili palestinesi delle operazioni, e di attuare anche procedure di targeting chiare e definite per ridurre al minimo i danni ai civili, assicurando la protezione di servizi essenziali e rifugi. Quest’ultimo tema non risulta al momento approfondito dalla Corte, ma è discusso dagli analisti militari.

Le contestazioni

Dura è stata invece la risposta del collegio giudicante, che ha ritenuto di contestare come le precedenti misure provvisorie imposte dalla Corte per salvaguardare la sicurezza e la sopravvivenza della popolazione siano state diffusamente disattese, e per questo sono stati richiamati anche i report forniti da diverse agenzie delle Nazioni unite.

La Corte ha contestato in particolare a Israele che le già compromesse condizioni di vita della popolazione palestinese risultano «ulteriormente deteriorate», soprattutto in considerazione della «prolungata e diffusa privazione di cibo e di altri beni di prima necessità».

Nonostante i due precedenti “avvertimenti” con le ordinanze provvisorie del 26 gennaio e del 28 marzo, risulta invece in corso da settimane una intensificazione dei bombardamenti e dell’offensiva su Rafah, dove più di un milione di palestinesi si erano rifugiati dopo gli ordini di evacuazione lanciati da Israele su più di tre quarti dell’intero territorio di Gaza.

Già il prosecutor della Corte penale internazionale aveva dato un segnale eccezionale annunciando di avere proposto alla Pre Trial Chamber una richiesta di arresto per il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Gallant, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, come per i capi di Hamas sebbene con imputazioni più gravi.

La Corte internazionale di giustizia ha imposto il cessate il fuoco, la liberazione degli accessi dei valichi su Gaza per l’assistenza umanitaria, e, nel richiedere espressamente l’accesso, anche a commissioni di inchiesta, ha di fatto confermato il suo proposito di proseguire nelle indagini sulle ipotesi di genocidio.

Il genocidio

Il termine «genocidio» associato storicamente all’Olocausto ora si riverbera contro lo stesso Israele. All’inizio il dramma dell’eccidio ebraico non trovava una definizione, tant’è che si parlava di «crimine dei crimini» o di «crimine senza nome».

Poi un ebreo, il giurista polacco Raphael Lemkin, combinò la parola greca génos, che vuol dire stirpe, genere, a quella latina ex-cìdium, strage, eccidio. Lemkin è stato quindi il promotore della Genocide Convention, adottata a New York con la risoluzione 260 A (III), dall’Onu il 9 dicembre 1948, insieme alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e che a oggi conta 152 stati-parte.

Più recentemente la definizione è stata richiamata nel 1998 all’articolo 6 dello Statuto della Corte penale internazionale, venendo delineata come «l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».

Per alcuni giuristi, specie se si analizza anche la stessa retorica di Putin o del primate Kirill, come dell’ideologo Dugin, e si considera il coinvolgimento sistematico della popolazione civile in bombardamenti e stragi come quella di Bucha, il genocidio potrebbe essere evocato anche per la guerra di aggressione all’Ucraina. Si torna dunque a ragionare sul perché analoga premura per l’accusa di genocidio davanti alla Corte dell’Aja non sia stata manifestata dal Sudafrica o da altri stati nei confronti della Federazione Russa, come anche nei confronti della Cina per la repressione degli uiguri.

Come in verità non risulta adeguatamente vagliato l’“intento genocidiario” che si rinviene purtroppo nelle numerose incitazioni al jihad e all’annientamento del popolo ebraico che hanno caratterizzato gli ultimi proclami dei leader di Hamas.

Le ragioni del diritto

Il segretario generale delle Nazioni unite ha ricordato che le decisioni della Corte internazionale di giustizia sono vincolanti, lasciando intendere che in caso di inosservanza gli stati incorrono in “responsabilità da illecito internazionale” e pertanto si espongono anche a misure sanzionatorie della comunità degli stati. Peraltro la Convenzione sul genocidio del 1948 vincola all’osservanza ben 152 stati-parte, fra cui figura anche lo stesso Israele.

A differenza dunque della richiesta di arresto del prosecutor della Corte penale internazionale che è stata criticata anche dagli Stati Uniti e su cui dovrà decidere ancora una Camera preliminare, la pronuncia della Corte internazionale di giustizia potrebbe avere effetti più concreti anche perché in sostanza è in linea con quanto già sollecitato dagli stessi alleati di Israele affinché le operazioni su Rafah risultino contenute e salvaguardino la popolazione civile, anche se purtroppo si parla ancora di morti e distruzioni in quell’area.

E tuttavia occorre essere fiduciosi su questa pronuncia della Corte internazionale di giustizia e sul ruolo che la comunità internazionale potrà esercitare su Israele per un radicale mutamento delle sue posizioni interne, come dimostra la piazza democratica che si sta risollevando.

La giustizia internazionale e la comunità degli Stati che si riconoscono nella rule of law hanno ribadito un principio che Israele sarà comunque chiamato a osservare: nella sua pur legittima reazione a un massacro come quello del 7 ottobre, uno stato di tradizione democratica non può mettersi sullo stesso piano di Hamas, né può cadere proprio nella trappola dei terroristi continuando a riversare la vendetta sulla popolazione civile dopo otto mesi di distruzioni di case, scuole, ospedali, interruzioni di aiuti per la sopravvivenza, esodi forzati e oltre 35mila vittime civili.

Sono chiari i segnali rivolti a Israele affinché riconosca i diritti dei palestinesi e ritrovi la forza di far prevalere le ragioni del diritto e dell’umanità, ripensando alla necessità della soluzione dei “due stati” condivisa dalla comunità internazionale.

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