Gil Dickmann è il cugino di Carmel Gat, rapita il 7 ottobre e uccisa da Hamas. «È cresciuta una pressione pubblica che si è levata oltre la politica: è un vero un movimento, cominciato con le famiglie degli ostaggi»
Mentre Trump e Netanyahu progettano luciferini affari per la “Riviera” Gaza, sognano catastrofici esodi di dimensioni bibliche per i palestinesi che tornano alle loro macerie, i rilasci degli ostaggi continuano. Uno dopo l'altro, gli israeliani tenuti in cattività, tra lacrime incredule e giubilo dei familiari, stanno tornando a casa. Circa una settantina rimangono però ancora nelle mani di Hamas e i parenti continuano a protestare nelle strade delle città israeliane per riaverli indietro: ancora vivi, prima che questa fragile tregua si spezzi di nuovo sotto il fuoco di altre, nuove bombe, proprio come accaduto in passato.
«Se Carmel fosse stata ancora viva, con l'accordo in corso ora, sarebbe tornata: se questo accordo lo avessero trovato in tempo, ora Carmel sarebbe qui con me. Per me e la mia famiglia è una tragedia indicibile». Gil Dickmann è il cugino di Carmel Gat, rapita insieme a sua cognata durante l'attacco del 7 ottobre. Quel giorno la madre di Carmel è stata uccisa. Quello è il giorno in cui tutto è per sempre cambiato.
Siamo diventati guerrieri
Non esiste foto in cui la terapista quarantenne del Kibbutz Be'eri non brilli di un sorriso gentile. Lo era anche la sua anima, assicura Gil: da qualche parte dentro di lei, durante la prigionia - gli hanno raccontato - Carmel ha trovato la forza per insegnare yoga agli altri prigionieri per aiutarli a calmarsi. Dopo mesi di buio, la cognata di Carmel è tornata a casa, di Carmel è invece tornato solo il cadavere: «È stata ammazzata brutalmente ad agosto in un tunnel a Rafah da Hamas. Abbiamo fatto tutto il possibile per riaverla, per convincere il governo a firmare un accordo, ma postponevano», «io e la mia famiglia siamo diventati guerrieri per riaverla».
Gil in tutti questi mesi non è mai rimasto zitto: «Questa non è una guerra tra ebrei e musulmani, ma tra chi sceglie la vita e la morte». In onda sulle maggiori reti statunitensi ha ripetutamente e apertamente puntato il dito contro il premier Netanyahu: è pronto a sacrificare vite, «per lui è solo matematica». «Gli importa solo della sua sopravvivenza politica, in ogni passo del percorso ha dimostrato solo questo, l'ho detto già, lo ribadisco. E l'ho visto con i miei occhi». Netanyahu Gil l'ha pure incontrato: «Quando ho parlato con lui, quando gli ho raccontato di Carmel, gli ho parlato anche di suo fratello, caduto a capo del commando che provava a salvare gli ostaggi israeliani fatti prigionieri all'aeroporto di Entebbe nel 1976. Ma dentro di lui non è apparsa nessuna emozione, in lui non cambiava niente».
Le foto dei rapiti
«Quando è iniziato il 7 ottobre» (nella coscienza collettiva israeliana questa data viene usata come sinonimo di guerra), «sembrava che al governo non interessasse abbastanza liberare i prigionieri. Non abbiamo attraversato solo lutto e attesa per il ritorno degli ostaggi, ma anche la lotta per essere sicuri che alle persone interessasse del loro destino. La società civile non ci ha messo molto ad accorgersi che la cosa importante erano loro, il governo invece li nascondeva: non la loro liberazione, ma combattere a oltranza, era il loro obiettivo».
Sempre in strada a sventolare le foto dei rapiti, le famiglie degli ostaggi hanno spinto per gli accordi di novembre e per quelli che ora consentono a molti di essere liberati: «È cresciuta una pressione pubblica che si è levata oltre la politica, oltre destra e sinistra», assicura il cugino della vittima, «ed è un movimento che è cominciato con le famiglie dei rapiti. È troppo tardi per Carmel, ma non è troppo tardi per tutti gli altri».
Fratelli e sorelle
Fratelli e sorelle, madri e padri, mogli e mariti degli ostaggi, racconta Gil, sono ormai diventati una famiglia sola: anche la sua - nonostante tutti i membri siamo stati restituiti, vivi e morti - non ha smesso di lottare per chi rimane ancora nei tunnel. «Se non tornano a casa il più presto possibile, sentiamo che la nostra missione non è compiuta, ognuno di loro deve essere liberato». Secondo lui da questa tragedia è nata una forza che può cambiare il corso del futuro di Israele. La scelta oggi è tra combattere o salvare vite, di ebrei e palestinesi: «Salvare vite passa sopra ogni cosa, devono capire che è questa la vittoria: quando la gente torna a casa», ma finora Hamas e il governo israeliano «hanno dimostrato di tenere di più alla vendetta che alle vite di ebrei e palestinesi».
E ancora. «L'unica soluzione è trovare una forza capace di trovare un accordo, una sorta di pace che assicurerà ad ogni essere umano una vita qui», dice Gil. «Per molti israeliani adesso questo è difficile da capire, ma ciò che abbiamo attraversato negli ultimi mesi renderà molto chiaro che l'unico futuro possibile nella regione è quello in cui troviamo un modo per vivere uno accanto all'altro. Quando c'è una guerra al mese, un conflitto all'anno, persone meravigliose muoiono da un lato all'altro della frontiera. Forse la soluzione arriverà da questi tempi oscuri».
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