- Nella serata di ieri è arrivata la notizia dei primi morti dell’ondata di violenza che sta investendo Gerusalemme, propagandosi velocemente in tutto il resto del paese. Si tratterebbe, secondo fonti palestinesi, di nove persone rimaste vittime dei raid dell’aviazione israeliana su Gaza, fra cui tre bambini.
- L’esercito Tsahal stava rispondendo al lancio di razzi dei miliziani di Hamas verso lo stato ebraico, che questa volta sono stati indirizzati anche nella direzione di Gerusalemme. L’escalation di tensione fra le due parti è stata lenta ma inesorabile, e ora rischia di tracimare in una guerra.
- C’erano tutti i presupposti. Gli israeliani celebravano lo Iom Yerushalaim che ricorda proprio la riunificazione della città nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni.
Nella serata di lunedì 10 maggio è arrivata la notizia dei primi morti dell’ondata di violenza che sta investendo Gerusalemme, propagandosi velocemente in tutto il resto del paese. Si tratterebbe, secondo fonti palestinesi, di almeno venti persone rimaste vittime dei raid dell’aviazione israeliana su Gaza, fra cui anche bambini che sarebbero rimasti uccisi nella zona di Beit Hanoun, la località all’estremità nord della Striscia dove si trova il valico di frontiera con Israele. L’esercito Tsahal stava rispondendo al lancio di razzi dei miliziani di Hamas verso lo stato ebraico, che questa volta sono stati indirizzati anche nella direzione di Gerusalemme.
L’escalation di tensione fra le due parti è stata lenta ma inesorabile, e ora rischia di tracimare in una guerra. Il primo motivo di tensione, lo scorso mese, è stato il divieto imposto dalla polizia israeliana di sostare sulla scalinata di pietra che conduce alla porta di Damasco a Gerusalemme, uno degli ingressi alla città vecchia. Le transenne – inizialmente giustificate come misura per evitare assembramenti in tempo di pandemia – hanno scatenato la protesta di piazza, inducendo le autorità israeliane a rimuoverle. Ma un circolo vizioso di violenze fra palestinesi e israeliani – indignati per il passo indietro delle autorità – era già stato innescato.
In questa dinamica già rovente si è inserita la resa dei conti sul quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, nel cuore di Gerusalemme est, dove vivono circa 330.000 palestinesi che non hanno cittadinanza israeliana, Il quartiere è rimasto nella parte giordana della città dopo la guerra del 1948 ed è stato poi riconquistato da Israele nel 1967, insieme a tutta la parte orientale. Nel 1948 tutte le famiglie ebraiche che abitavano oltre la linea del cessate il fuoco con la Giordania sono state costrette a riparare in Israele – e parallelamente si consumava la tragedia dei profughi palestinesi costretti a fuggire nei paesi arabi dalle zone rimaste sotto sovranità israeliana.
Le contese legali
Sulla base dell’antico legame fra le famiglie ebraiche e il quartiere, organizzazioni israeliane spesso legate al mondo ebraico o cristiano-evangelico negli Stati Uniti conducono da anni una battaglia per una rinnovata presenza ebraica nelle zone contese. Sono complicatissime disfide legali che, per mascherare i risvolti politici, coinvolgono spesso un numero infinito di intermediari, prestanome, società straniere. Ma in fin dei conti l’obiettivo è molto semplice: quello di sostituire il più possibile la popolazione palestinese di Gerusalemme est con coloni israeliani. Proprio in queste settimane gli annosi appelli giudiziari dei residenti palestinesi rischiavano il diniego definitivo e inappellabile della Corte suprema israeliana, il che avrebbe reso esecutivo il mandato di sfratto.
«Sarebbero espulsioni ingiuste e illegali. Situazioni come questa mettono d’accordo tutti i palestinesi, da quelli di Gaza a quelli della Cisgiordania, da quelli di Gerusalemme est a quelli che abitano nel nord e sono tecnicamente cittadini di Israele», dice Shahin Nasser, un attivista arabo-israeliano di Haifa. Ecco allora che le proteste contro le espulsioni hanno coinvolto tutti gli strati della popolazione palestinese, soprattutto quando la polizia israeliana ha cercato di reprimerle spingendosi fin dentro le moschee della spianata di Gerusalemme, il luogo più sacro per i musulmani nel paese.
La giornata di ieri presentava poi tutti i presupposti per un’ulteriore escalation. Gli israeliani celebravano lo Iom Yerushalaim che ricorda proprio la riunificazione della città nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni. Tradizionalmente, la marcia sulla città attira i più ferventi fra i nazionalisti israeliani, e attraversa il quartiere musulmano della città vecchia passando proprio dalla porta di Damasco. Visto il clima incandescente – durante la giornata è emerso anche il video di un autista israeliano aggredito senza motivo da giovani palestinesi con una sassaiola – le autorità hanno deciso di fare un altro passo indietro. Per ordine della polizia, il percorso è stato modificato affinché transitasse in zone meno tese.
Daniel Lurie, un israeliano di origini americane che dirige Ateret Cohanim, una delle società che si occupa di acquisire case per ebrei nelle zone palestinesi, era indignato. «Doveva essere un giorno magnifico, sfortunatamente il governo ha preso la decisione vergognosa di deviare la marcia, un arretramento che ha scioccato il paese», dice. «Ci siamo privati di un pezzetto di sovranità su Gerusalemme, abbiamo dimostrato di non saper gestire l’odio e la violenza degli arabi. Se non rispondi fermamente, se permetti che pietre e razzi vengano lanciati senza reagire, la situazione non farà che peggiorare. Bisogna rispondere con il pugno di ferro».
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