La destra israeliana non fa più mistero di voler svuotare la Striscia, con un esodo “volontario” dei palestinesi. Gli Usa provano a mettere paletti. Ma l’allargamento del conflitto farebbe passare il dramma in secondo piano
Trasferimento volontario di una popolazione che emigra spontaneamente oppure pulizia etnica? Gran parte della guerra di Gaza si gioca, in fondo, intorno ad una questione di definizioni. Mentre lutti e distruzioni aumentano, appare sempre più alta la probabilità che il conflitto duri ancora mesi e si concluda con uno spopolamento della Striscia. Esito che obbliga fin d’ora l’occidente, l’Europa, l’Italia, a chiamare le cose con il loro nome.
E a scegliere in fretta, nel caso, se restare in silenzio, di fatto avallando i metodi israeliani. Ormai sono centinaia di migliaia i palestinesi accampati lungo la frontiera con l’Egitto. Terrorizzati e alla fame, inevitabilmente cercherebbero scampo oltreconfine se bombe aprissero varchi nei reticolati. Ma prima il governo israeliano dovrebbe trovare un accordo sottobanco con l’egiziano al Sisi, dittatore indebitatissimo. E magari convincere paesi africani e sudamericani a prendersi un po’ di quei “migranti” palestinesi (se ne occupa l’ex ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon; contatti sono in corso, il Congo si è già detto disponibile).
L’esodo volontario
Qualunque sia la formula praticabile, ormai la destra israeliana non fa più mistero del suo desiderio di svuotare Gaza. L’esodo dovrà essere «volontario», ovviamente. E senza ritorno, anche questo è scontato. I ministri della destra estrema propongono di «incoraggiare l’emigrazione», così dicono, e poi annettere la Striscia consegnandola a “coloni”.
Invece Netanyahu e il ministro della Difesa, entrambi del Likud, vorrebbero salvare le apparenze. Niente coloni, niente annessione (più avanti, chissà). Ma l’esercito israeliano in controllo delle rovine di Gaza, circostanza che terrebbe lontano tanto i paesi occidentali o arabi disponibili a finanziare la ricostruzione quanto tecnocrati palestinesi cui affidare l’amministrazione civile. Risultato prevedibile: piuttosto che restare accampati in un campo di battaglia, tra i ruderi di una terra morta, sotto il tiro di un tank israeliano, i palestinesi probabilmente accetterebbe l’esilio.
Non si può dire che l’esercito non faccia il possibile per convincerli ad emigrare. Infatti continua a bombardare le presunte “zone sicure” in cui convoglia la popolazione con volantini (oltre 200 enormi bombe da 900 kg lanciate su quelle aree, ha dimostrato il New York Times; l’ultima venerdì, sulle tende di profughi); ostacola l’accesso a viveri e medicinali; ha raso al suolo l’università, le scuole, gli uffici dell’alto Commissariato Onu per i rifugiati; messo fuori uso 22 centri sanitari; sterminato personale sanitario; compromesso la rete idrica; danneggiato due case su tre; incenerito ogni forma di economia. E la guerra continua. Quando saranno conclusi gli urbicidi chi vorrà vivere in quel cimitero?
Si sostiene che Israele eserciti il sacrosanto diritto a difendersi. Ma se la Procura della Corte penale internazionale allinea i tormenti inflitti ai gazawi e li legge come funzionali al progetto di spopolare Gaza, interpreterà la condotta del governo Netanyahu non più come “crimini di guerra in serie” ma come pulizia etnica, classificata come crimine contro l’umanità dallo Statuto di Roma (articolo 7 comma d, “Trasferimento forzato di popolazione”; nel caso poi che attribuisse all’offensiva israeliana su Gaza lo scopo di «sottoporre deliberatamente persone appartenenti ad un determinato gruppo umano a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso», potrebbe applicare addirittura l’articolo 6, “Genocidio”, comma d).
Su Israele precipiterebbe uno stigma bruciante. Però a novembre gli Stati Uniti potrebbe eleggere un presidente più in sintonia con Netanyahu (secondo Danny Danon, la possibile candidata alla Casa Bianca, Nikki Haley, non sarebbe contraria al “transfer”).
E in quel caso diventerebbe più agevole convincere gli occidentali che la desertificazione di Gaza è stata “danno collaterale”, insomma non intenzionale, e che sarebbe cosa nobile “favorire il trasferimento volontario” dei palestinesi.
Il rischio dell’allargamento
Inoltre la sorte di Gaza passerebbe in secondo piano se nel frattempo lo scontro tra Israele ed Hezbollah divampasse in un conflitto regionale, suscettibile di essere spacciato per un titanico “conflitto di civiltà”. In quel caso chi si curerebbe di quel che avviene alle formichine palestinesi dei Territori occupati? Di qui a parecchi mesi Netanyahu potrebbe offrire al nazionalismo israeliano l’acquisizione definitiva di un territorio biblico, eventualità non disgiunta da vantaggi pratici, per esempio belle spiagge da sfruttare. E se nel frattempo anche i coloni riuscissero, protetti dall’esercito, ad incendiare il West Bank, si materializzerebbe l’occasione per cancellare una volta per tutte l’incongrua presenza araba nella terra di Canaan.
Se il calcolo fosse questo i rischi sarebbero altissimi.
Ma l’alternativa deve apparire spaventosa al gabinetto di guerra israeliano. Se ponesse fine adesso alle ostilità non saprebbe come giustificare un’offensiva inconcludente, la morte di tanti soldati e di non pochi ostaggi sepolti vivi dalle bombe, il discredito internazionale, la sopravvivenza di Hamas. E soprattutto subirebbe la pressione occidentale e araba perché Israele accetti la soluzione dei due stati, e non nella versione truffaldina inventata dall’amministrazione Trump (ai palestinesi verrebbe offerto uno stato privo di unità territoriale e delle caratteristiche proprie della statualità).
Con la popolazione di Gaza “trasferita” nel Sinai, invece, Netanyahu potrebbe sostenere che i gazawi, essendo arabi, possono ritagliarsi in quelle terre uno stato palestinese, e anche molto più grande di Gaza (secondo il piano ventilato anni fa, al Sisi verrebbe ricompensato con finanziamenti e vasti territori nel deserto del Negev).
Occidente tentennante
Quanto più la guerra prosegue – prevede Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto affari internazionali, intervistata da al Jazeera – tanto più «la pulizia etnica diventa probabile». Avendo reiterato ancora la settimana scorsa che «Gaza è terra palestinese e rimarrà tale», l’amministrazione Biden dovrebbe imporre un cessate-il-fuoco permanente per essere fedele al proprio impegno. Ma esita. Non vuole alienarsi il suo maggior alleato nel Medio Oriente.
I tentennamenti americani disorientano gli europei, inclusa quella larga parte della politica e dei media italiani che è solita attendere la linea da Washington. Così la confusione occidentale sfocia in un compromesso politico e in un’acrobazia semantica. Si vorrebbe che Gaza resti palestinese ma non si adombrano misure per tentare di fermare l’offensiva israeliana. E si tace sul rischio di una “pulizia etnica”. La dizione “pulizia etnica” è tra gli interdetti del dibattito pubblico in Italia, insieme ad “apartheid israeliano” (di quest’ultimo parla la stampa pentastellata, ma per negarlo: si tratterebbe di una tesi idiota). Sicché resta senza risposte una domanda: perché dovremmo denunciare una “emigrazione spontanea” dei palestinesi se non configura una “pulizia etnica”? E se la configura, perché l’Europa non dovrebbe tentare di sventarla, per esempio con sanzioni? Sarebbe interessante sapere cosa ne pensi la politica italiana, in merito finora piuttosto silente.
Il diritto umanitario
Quando decidessimo di chiarirci le idee, sarebbe utile dare un’occhiata allo Statuto di Roma. Il diritto umanitario internazionale resta l’unico strumento universale per classificare le più gravi violazioni dei diritti umani: per decidere, in questo caso, cosa sia apartheid, “pulizia etnica”, crimini contro l’umanità.
Trattandosi di un diritto in fieri è limitato da lacune e contraddizioni. Per esempio non ci dice che le guerre lanciate dalla Nato, anche quelle pretestuose, non erano guerre di conquista e di annessione, come sono la guerra di Putin in Ucraina e a suo modo la guerra di Netanyahu a Gaza. Ma se incrociamo diritto internazionale e un minimo di storia non taroccata secondo convenienza, non è difficile intendere che il regime russo e il governo israeliano sono entrambi nemici degli stati di diritto liberali (ovviamente Hamas è nella famiglia).
Per cui è del tutto incoerente denunciare i bombardamenti a Gaza e allo stesso tempo gioire per i fiaschi militari ucraini e pretendere che Kiev accetti la pace alle condizioni di Mosca; oppure, all’inverso, condannare la ferocia russa e ignorare quel che produce l’offensiva nella Striscia. Rispetto a questa logica sgangherata, di casa in Italia, appare buonsenso anche la prudenza circospetta di Meloni e Tajani, o le più audaci dichiarazioni di Crosetto e della Schlein. Ma siamo su un crinale decisivo della storia mondiale, il buonsenso non è più sufficiente per orientarsi. Occorrerebbero idee nuove e coraggiose. Forse non sarà possibile fermare il governo israeliano, ormai lanciato verso l’abisso come un treno senza capotreno. Ma prendendone platealmente le distanze, almeno non saremo complici.
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