Il riferimento ai musulmani perseguitati dal regime si sovrappone alle tensioni interne sull’accordo con Pechino. «La Santa sede mette sulla croce i suoi figli per compiacere il nemico», dice il cardinale Zen, capofila dei critici
- In un’anticipazione al suo prossimo libro, Papa Francesco ha menzionato la minoranza musulmana cinese dei «poveri uiguri» fra i «popoli perseguitati» del mondo, alla stregua dei «rohingya e gli yazidi».
- Le parole sono state subito bollate come «dichiarazioni basate sul nulla» dal portavoce del ministero degli Esteri cinese.
- La frase del papa va oltre una semplice convinzione sul brutale trattamento riservato al gruppo etnico. Le parole rievocano l’ombra delle persecuzioni dei cattolici in un paese che, adagiato sull’accordo delle nomine episcopali firmato nel 2018 e recentemente prorogato, fa i conti con una chiesa cattolica estremamente polarizzata.
Una frase estratta da un libro non può sabotare anni di negoziati fra due potenze come la Cina e la Santa sede, ma può mostrare incognite impronunciabili di un negoziato che resta, nei fatti, complesso. In un’anticipazione al suo prossimo libro Ritorniamo a sognare. La strada verso un futuro migliore (Piemme, in uscita il 1° dicembre), Papa Francesco ha menzionato la minoranza musulmana cinese dei «poveri uiguri» fra i «popoli perseguitati» del mondo, alla stregua dei «rohingya e gli yazidi». Le parole sono state subito bollate come «dichiarazioni basate sul nulla» dal portavoce del ministero degli Esteri cinese: «Tutti i gruppi etnici nel paese godono del pieno diritto alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla libertà religiosa», ha spiegato.
Sull’assenza di una sistematica repressione della minoranza musulmana nella provincia occidentale dello Xinjiang, anche le Nazioni unite nutrono forti dubbi. Nel rapporto presentato nel 2018 dalla vicepresidente della Commissione per l’eliminazione della discriminazione razziale, Gay McDougall, l’Onu ha dato credito alla presenza di campi di internamento costruiti dal governo cinese per l’indottrinamento politico dei musulmani.
Eppure, la frase del papa sugli uiguri va oltre una semplice convinzione sul brutale trattamento riservato al gruppo etnico. Le parole rievocano l’ombra delle persecuzioni dei cattolici in un paese che, adagiato sull’accordo delle nomine episcopali firmato nel 2018 e recentemente prorogato, fa i conti con una chiesa cattolica estremamente polarizzata. Dal 2018, il Vaticano non è riuscito nell’intento di fondere le due anime della xchiesa cinese: quella “patriottica”, riconosciuta da Pechino, e la “clandestina”, che respinge l’approvazione dell’autorità, restando fedele esclusivamente al pontefice.
Il portavoce dell’opposizione
Chi manifesta malumori per il rinnovato accordo è il cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, pervicace nel dire che un dialogo con Pechino è un vicolo cieco: «Se dal 2006 faccio il lottatore, non lo faccio per mio gusto personale. Parlo perché sono la voce dei senza voce», scriveva in un appello diffuso online nel 2016. A distanza di quattro anni da allora, Zen non teme di sfidare Pechino e Roma, e parla per conto di quei cattolici perseguitati che «si sentono traditi» dalla Santa sede: «Da tanti anni hanno resistito, e la Chiesa aveva sempre incoraggiato loro a resistere. Molti loro familiari sono morti sotto la persecuzione: adesso la Santa sede li incoraggia ad arrendersi. Si sentono disorientati, delusi ed anche risentiti, si sentono di essere traditi», dice il cardinale.
Per Zen, la proroga dell’accordo esprime l’indebolimento di Roma nella difesa delle comunità cattoliche, strette dalle autorità provinciali intransigenti. Torna alla memoria il caso di James Su Zhimin, vescovo di Baoding, scomparso vent’anni fa: episodi che, secondo fonti locali, continuano ancora oggi. Secondo il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, il vescovo Augustine Cui Tai, affiliato alla «comunità clandestina» di Xuanhua, è stato arrestato «e non è noto dove si trovi», mentre il vescovo di Shanghai, Thaddeus Ma Daqin, è agli arresti domiciliari nel seminario della città. «Il governo usa l’accordo per obbligare i fedeli a fare tutto quel che vogliono, dicendo che il papato è già d’accordo con loro. Così dicono a quelli della comunità clandestina: venite fuori tutti e partecipate alla chiesa ufficiale sotto il controllo del governo», afferma Zen, che accusa Roma: «Lo scorso anno, a fine giugno, la Santa sede ha emanato gli “orientamenti pastorali per la registrazione civile del Clero”, con cui incoraggia il clero della comunità clandestina a registrarsi presso il governo, firmando un documento in cui accettano di far parte della chiesa indipendente, cioè oggettivamente scismatica. È la morte della vera Chiesa!».
A fine settembre, alla vigilia dell’accordo, Zen ha cercato di scongiurarne il rinnovo recandosi personalmente a Roma con un permesso limitato a quattro giorni. Il papa non lo ha ricevuto, e al cardinale non è rimasto che consegnare una lettera di fuoco al suo segretario. Ma le porte chiuse di santa Marta sono apparse come un rifiuto a qualsiasi critica verso Pechino e percepite come un tradimento alla chiesa stessa.
Un silenzio inaccettabile per Zen, perché tradisce la linea portata avanti dai predecessori di papa Francesco: «La Santa sede, specialmente la lettera di papa Benedetto, ha detto chiaramente che una chiesa indipendente è falsa, non è vera chiesa cattolica. Adesso, la Santa sede dice il contrario? Chi ha sbagliato? Hanno sofferto tanti invano, per sbaglio? O non è piuttosto la Santa sede che sta sbagliando? Cosa orribile! Queste sono vere sofferenze, la Santa sede sta mettendo sulla croce i suoi figli più fedeli per compiacere il nemico!».
Un accordo non basta
Per il cardinale, le vecchie ostilità di Pechino verso la comunità clandestina sono sufficienti ad accantonare qualsiasi tentativo di pacificazione: «Il papa deve usare la sua autorità morale ed ammonire i comunisti cinesi di desistere dalla persecuzione di tutte le religioni. Se il papa e il Vaticano continuano ad arrendersi a Pechino, perderanno la credibilità davanti al mondo. Per compiacere il Partito comunista cinese, il papa non ha detto una parola, mentre tutto il mondo vede come, con estrema violenza, stanno imponendo assoluto controllo su Hong Kong, rinnegando anche l’autonomia promessa e ogni libertà».
E a chi in Vaticano risponde che i vescovi della comunità “ufficiale” avevano chiesto in segreto la riconciliazione con la chiesa di Roma, il prelato risponde con la stretta costata a due monsignori della comunità “clandestina”, costretti, per ubbidienza al pontefice, a ritirarsi: «In due delle sette diocesi c’erano vescovi legittimi della comunità clandestina, e due sono stati obbligati a cedere il posto. Cose terribili, inimmaginabili!».
L’ultimo caso è attestato ai primi di ottobre, quando Vincenzo Guo Xijin, vescovo ausiliare della diocesi di Mindong, ha dato pubblicamente le sue dimissioni per non essere «ostacolo al progresso» di riconciliazione fra le due anime della chiesa cinese. «In questi due anni non c’è stata neanche una nomina, ci sono state due ordinazioni episcopali, ma i due erano nominati già qualche anno prima dell’accordo», puntualizza Zen, che continua a considerare i vescovi ordinati in passato, ora accolti dalla Santa sede, come «illegittimi» perché «in tutti questi anni hanno sfidato l’autorità del Papa, e con l’appoggio del governo hanno agito come se fossero veri vescovi». Il risentimento vivo del cardinale Zen e la frase “scomoda” di papa Francesco mostrano che un accordo non basta per sanare divergenze antiche.
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