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Abu Dhabi ha negato il permesso di fare scalo all’aereo che portava i giornalisti, una ritorsione per lo stop alla vendita di armi Nella base di Herat, guidata dagli italiani dal 2005, è stata ammainata la bandiera. L’Italia accoglierà chi ha collaborato fra gli afghani.
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Il volo è stato dirottato a Dammam in Arabia Saudita dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno ritirato, improvvisamente, l’autorizzazione affinché il volo sorvolasse il proprio territorio. Il ministro degli esteri Di Maio ha convocato l’ambasciatore emiratino.
- Il fondamentalismo islamico non è scomparso e ha causato 53 vittime italiane nel corso del conflitto. Adesso rimangono preoccupazioni per le sorti dell’Afghanistan.
Un incidente diplomatico ha oscurato la cerimonia per il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan. L’aereo dell’aeronautica italiana che portava giornalisti e militari nella città di Herat è stato costretto a fare uno scalo imprevisto a Damman, in Arabia Saudita, dopo che a metà del volo gli Emirati Arabi Uniti hanno negato l’autorizzazione a sorvolare il proprio spazio aereo e a fare rifornimento nella base di al Minhad, com’è consuetudine in queste tratte e come era previsto nel programma del viaggio organizzato dal ministero della Difesa.
«La questione è di carattere diplomatico rispetto a decisioni che erano state assunte e garantite», ha detto il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e con ogni probabilità lo sgarbo di Abu Dhabi è una ritorsione per la decisione, presa dal governo Conte, di sospendere la fornitura di armi dopo le stragi di civili nello Yemen e per i complicatissimi rapporti rispetto alla Libia, dove gli Emirati finanziano le operazioni dei russi e del generale Khalifa Haftar contro il governo di transizione propiziato dall’Onu e sostenuto dall’Italia.
Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha convocato l’ambasciatore degli Emirati a Roma per chiedere conto dell’accaduto. Dopo quattro ore di scalo in Arabia Saudita, il Boeing è ripartito verso l’Afghanistan.
La bandiera ammainata
Dopo vent’anni l’Italia ha terminato simbolicamente la sua missione e ha ammainato la bandiera in Afghanistan alla presenza del ministro della Difesa. La cerimonia è avvenuta nella base di Herat, nel nord ovest del paese, che dal 2005 è guidata dalle forze militari italiane sotto l’egida della Nato.
La struttura militare è stata usata prima per la missione Isaf e poi per la missione Resolute Support, entrambe dedicate all’aiuto della popolazione afghana e alla formazione del personale civile e militare locale. «Quella del ritiro è stata una decisione presa in sede politica dalla Nato», ha ricordato il ministro.
Non a caso, la smobilitazione della base ha subìto una forte accelerazione dopo che il presidente americano, Joe Biden, ha fatto sapere a metà aprile di volere ritirare le proprie truppe entro l’11 settembre. Il ritiro effettivo potrebbe, però, avvenire già il 4 luglio. Una data che potrebbe segnare l’addio definitivo anche per gli italiani, ha detto il comandante del Comando operativo vertice interforze Luciano Portolano. Ogni giorno gli aerei dell’aeronautica sono impegnati nella rimozione del materiale dalla base. «Lasceremo comunque alcune infrastrutture agli afghani», ha aggiunto Portolano. Un lascito importante perché, come spiegato dal comandante del contingente italiano a Herat, Beniamino Vergori, «ora sta agli afghani difendere la democrazia».
Ma la situazione è tutt’altro che semplice. «Non vi nascondo le difficoltà che l’Afghanistan avrà davanti a sé», ha detto Guerini prendendo atto di tutti gli interrogativi della fine di una delle missioni più longeve della Nato.
A destare preoccupazione è soprattutto l’avanzata dei talebani, che controllano circa il cinquanta per cento del territorio nazionale e con cui gli americani stanno continuando a trattare per evitare che il paese precipiti nuovamente nel caos.
Pesano anche l’attivismo dell’Isis che da mesi continua a rendersi responsabile di attentati nel paese e lo spettro del ritorno di al Qaida.
I collaboratori afghani
Un fondamentalismo islamico che, nonostante vent’anni di guerra, non è scomparso e ha causato 53 vittime italiane nel corso del conflitto. Morti ricordati come “lacrime” dal capo di stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli.
Nel punto stampa, Guerini ha tenuto a rassicurare chi tra gli afghani ha collaborato con gli italiani, circa 270 persone: saranno portate in salvo in Italia nell’ambito dell’operazione Aquila, mentre l’accoglienza di altri 400 collaboratori è in fase di approvazione.
Chi è già rientrato fra i beneficiari della missione è Nader, un barista afghano che da tre anni lavora con gli italiani: «Siamo grati agli italiani, anche se ovviamente, se la situazione l’avrebbe permesso saremmo rimasti qui», dice. La fuga di chi ha collaborato con gli occidentali prosegue nonostante lunedì i talebani abbiano rassicurato chi in questi anni ha lavorato fianco a fianco con le forze Nato.
La decisione di accogliere i collaboratori afghani è stata presa anche da altri paesi della coalizione, e testimonia la poca fiducia reciproca fra talebani e forze occidentali.
Guerini ha poi aggiunto che la Nato sta discutendo su come continuare a fornire assistenza nell’addestramento delle forze militari afghane.
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