Quando questa mattina il discorso di Xi Jinping aprirà il XX congresso nazionale del Partito comunista cinese, gli occhi del mondo saranno puntati come mai prima sulla Grande sala del popolo a piazza Tiananmen, sede dell’assise quinquennale.
Capi di governo, banchieri e investitori proveranno a capire dalle parole del segretario generale del Pcc che direzione prenderà la seconda economia e il paese più popoloso del pianeta in uno scenario internazionale stravolto dalla pandemia, dal ritorno dei nazionalismi e dalla guerra in Ucraina. La Cina continuerà a essere protagonista della globalizzazione, potrà rappresentare per il capitale transnazionale un’ancora di stabilità in una fase di cupa incertezza? Oppure si rifugerà anch’essa in una relativa autarchia, come suggeriscono la sua politica “contagi zero”, che tiene isolate da due anni e mezzo 1,4 miliardi di persone, e la strategia della “doppia circolazione”, che ha ricalibrato il suo sviluppo puntando soprattutto sul mercato interno?
Il “leader del popolo”
Come che sia, i 2.296 delegati in rappresentanza di 96,7 milioni di iscritti certificheranno ufficialmente il ritorno della Repubblica popolare cinese sotto la leadership di un “uomo forte”, con un mandato senza limiti. Come ai tempi di Mao, ignorando la consuetudine della transizione decennale delle leadership che Deng e i suoi successori avevano rispettato per evitare disastri come il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale, quando il “grande timoniere”, senescente ma perennemente al comando, aveva perso il contatto con la realtà.
Infliggendo al paese le sofferenze che lo stesso Pcc avrebbe stigmatizzato con la Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito dalla fondazione della Repubblica popolare cinese. Xi otterrà non soltanto un inedito terzo incarico, ma forse anche il titolo di “leader del popolo”, che verrebbe inscritto nello statuto del partito per elevarne ulteriormente lo status.
Tecnologia autoctona
Infine è l’inedito contesto – interno ed esterno – a rendere straordinaria l’assemblea che si scioglierà tra una settimana, immediatamente seguita dalla prima sessione plenaria del XX comitato centrale da cui uscirà il nuovo comitato permanente dell’ufficio politico, ovvero la leadership ristretta (presieduta dal segretario generale) che di fatto governerà la Cina.
Ed è un quadro tutt’altro che incoraggiante, caratterizzato da un lato da un deciso rallentamento della crescita (più 3,2 per cento l’ultima stima del Fondo monetario internazionale per il 2022) e dal mantenimento di rigide limitazioni agli spostamenti della popolazione e, dall’altro, dal cambiamento della politica statunitense nei confronti della Cina, da partner divenuta avversario: un mutamento che, dopo la guerra commerciale dichiarata da Donald Trump nel 2018, è stato sposato dall’amministrazione di Joe Biden, che nella strategia di sicurezza nazionale Usa pubblicata alla vigilia del XX congresso del Pcc ha etichettato la Cina come la «sfida geopolitica più significativa» per gli Stati Uniti.
Tutto ciò contribuisce a rendere il XX un congresso molto diverso dai precedenti dell’era post maoista, nel quale in aggiunta il partito non potrà celebrare i trionfi della sua economia, che – secondo le previsioni della Banca mondiale –, per la prima volta dal 1990, nel 2022 crescerà meno di quelle della regione Asia orientale-Pacifico (più 2,8 e più 5,3 per cento rispettivamente).
Certo, da festeggiare ci saranno le sempre più frequenti missioni spaziali, ma perfino il “737 cinese”, il Comac C919, per entrare in commercio dovrà fare i conti con la disponibilità di Washington a vendere al produttore apparati elettronici Usa essenziali per i motori e altre parti dell’aereo made in China.
Proprio sul percorso che dovrebbe portare la Cina a raggiungere l’autosufficienza tecnologica ci si attende che Xi fornisca chiarimenti sullo stato dell’arte e sulle prospettive di medio periodo, essendo chiaro a tutti che l’era in cui Pechino poteva acquisire liberamente “componenti chiave” dai paesi avanzati si è chiusa per sempre, e che, se non vuole rimanere indietro, la Cina dovrà fare da sola, a cominciare dalla fabbricazione dei microchip, i cervelli dell’industria moderna al centro dello scontro con gli Stati Uniti.
L’ora dei sacrifici
Dopo il XIX congresso (18-24 ottobre 2017), il “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova era” è stato inserito nella carta fondamentale del partito e nella costituzione della Repubblica popolare cinese, assurgendo a religione di stato, i cui precetti vengono dispensati agli studenti di ogni ordine e grado e, a media unificati, a tutta la popolazione.
Perfino nel G7 c’è stato chi (l’Italia del governo gialloverde) ha creduto alle magnifiche sorti e progressive della nuova via della Seta. Salutato in patria come quello dell’avvento di una “Nuova era”, il XIX congresso è stato però percepito dalle élite occidentali come la manifestazione di una nuova hybris cinese da contrastare con ogni mezzo necessario, con il protezionismo e perfino ricorrendo a un containment d’antan, contro un paese che pure ha poco in comune con l’ex potenza sovietica.
In un articolo apparso negli ultimi giorni su Qiushi (il giornale di teoria politica del partito) Xi ha ricordato che «nelle nuove circostanze storiche dobbiamo perseverare con grande spirito di sacrificio, il nostro partito deve essere unito per guidare il popolo ad affrontare efficacemente grandi sfide, difendersi da grandi rischi, superare grandi barriere e risolvere grandi contraddizioni».
Anche durante il XX congresso – c’è da scommetterci – Xi insisterà sul ruolo guida del partito da lui profondamente riformato e irregimentato come unico strumento in grado di far centrare al paese il secondo degli “obiettivi dei centenari”, quello del 2049 (a un secolo dalla fondazione della repubblica popolare), quando la Cina dovrebbe trasformarsi in un “paese socialista moderno”, “ricco e forte”, come dalla metà dell’Ottocento l’hanno sognato tutti i riformisti e i rivoluzionari più eminenti.
Il nuovo governo
Promuovendo i suoi fedelissimi nei gangli del potere politico ed economico, attraverso una serie di riforme istituzionali e con la marginalizzazione dei suoi avversari più temibili, nel corso degli ultimi cinque anni Xi ha consolidato il suo potere. Tuttavia è più che probabile che alcune delle sue scelte abbiano suscitato perplessità e qualche malumore all’interno del partito. Il giro di vite che l’anno scorso ha colpito le maggiori compagnie internet – ridimensionandole e provocando decine di migliaia di licenziamenti – e l’insistenza sulla strategia “contagi zero” sono solo due tra le più controverse. Il congresso sarà l’occasione per presentare al pubblico qualche attesa novità, soprattutto sulla lotta al Covid?
Improbabile invece che siano emersi disaccordi sostanziali sulla politica estera: nel momento in cui avverte che Washington è determinata a contrastarne le ambizioni – in particolare su Taiwan e sul Mar cinese meridionale – la leadership cinese risponde serrando i ranghi e facendo ricorso alla propaganda nazionalista.
A fronte delle accentuate difficoltà riconosciute dallo stesso Xi, sarà interessante vedere se il segretario generale sarà disposto a dare spazio a voci dissonanti dai peana dei suoi accoliti a caccia di un avanzamento di carriera – amplificati negli ultimi mesi dai media governativi – o se tirerà dritto lungo la strada dell’accentramento di potere fin qui tenacemente perseguita.
Il comitato permanente dell’ufficio politico (i cui membri sono stati ridotti da nove a sette dieci anni fa, in occasione dell’elezione di Xi) sarà allargato? Al suo interno sarà data rappresentanza a quelle che – prima che Xi le smantellasse – venivano considerate vere e proprie fazioni (delle quali il Pcc da sempre nega l’esistenza)? Il XX congresso darà qualche indicazione sulla durata della leadership di Xi?
La posta in gioco è altissima, per la posizione, centrale, che Cina ha occupato sullo scacchiere internazionale e per lo stesso Pcc, che con le strategie della “doppia circolazione” e del “benessere comune” (che saranno discusse e approfondite durante il congresso), ha abbandonato la strada dell’ipercrescita per imboccare quella di una doverosa quanto complessa ridistribuzione della ricchezza, in una società segnata da profonde disuguaglianze. Si tratta insomma di cambiare rotta. E farlo nel bel mezzo di una tempesta globale e con un timoniere troppo a lungo al comando potrebbe rivelarsi pericoloso.
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