- Pechino suona l’allarme per i miliziani che, dall’Afghanistan, potrebbero unirsi alla campagna jihadista che ha preso di mira le infrastrutture del Corridoio economico Cina-Pakistan.
- Eppure la diplomazia cinese segue l’evolversi del caos a Kabul da una posizione vantaggiosa: quella di chi, non essendosi sporcato le mani nella “tomba degli imperi”, può stigmatizzare la débâcle statunitense a fini di propaganda interna, e invocare nei consessi internazionali i fondi per una stabilizzazione con protagonisti e obiettivi diversi dagli interventi Usa-Nato degli ultimi 20 anni.
- E così, il ministro degli Esteri Wang Yi ha ricordato al suo omologo Antony Blinken che «gli Stati Uniti devono lavorare con la comunità internazionale per fornire all’Afghanistan l’urgente aiuto economico, di sostentamento e umanitario che permetta al nuovo regime di mantenere il normale funzionamento delle istituzioni governative, la sicurezza e la stabilità».
Pechino suona l’allarme per i miliziani che, dall’Afghanistan, potrebbero unirsi alla campagna jihadista che ha preso di mira le infrastrutture del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), e per il fantomatico Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim) che sarebbe pronto a colpire in Cina, a sostegno dei separatisti uiguri del Xinjiang.
Eppure la diplomazia cinese segue l’evolversi del caos a Kabul da una posizione vantaggiosa: quella di chi, non essendosi sporcato le mani nella “tomba degli imperi”, può stigmatizzare la débâcle statunitense a fini di propaganda interna, e invocare nei consessi internazionali i fondi per una stabilizzazione con protagonisti e obiettivi diversi dagli interventi Usa-Nato degli ultimi 20 anni. E, consapevole che i suoi interessi economici e geopolitici sono complementari con le impellenti necessità del nuovo potere di Kabul, ai talebani può dettare le condizioni per il suo appoggio.
Le casse vuote dei talebani
E così, due giorni prima dello scadere, oggi, del termine per il ritiro delle truppe Usa, il ministro degli esteri Wang Yi ha ricordato al suo omologo Antony Blinken che «gli Stati uniti devono lavorare con la comunità internazionale per fornire all’Afghanistan l’urgente aiuto economico, di sostentamento e umanitario che permetta al nuovo regime di mantenere il normale funzionamento delle istituzioni governative, la sicurezza e la stabilità».
Wang ha puntualizzato che la Cina darà l’ok in sede di Consiglio di sicurezza Onu «a una transizione morbida piuttosto che per spingere nuovamente nel caos l’Afghanistan». Traduzione: aiuti, non embargo, per un regime che Pechino non ha ancora riconosciuto ufficialmente, e con le casse vuote anche perché - come rivelato dal New York Times - la Federal reserve bank of New York trattiene 7 dei 9 miliardi di dollari delle sue riserve di valuta estera. Se pure Pechino volesse sostenere finanziariamente i talebani, non potrebbe farlo senza l’assicurazione di non essere colpita da sanzioni.
La crisi afghana fornisce comunque alla Cina di Xi Jinping una opportunità per riproporsi come potenza “pacifica” e “responsabile” dopo che la gestione dell’epidemia di coronavirus ha fatto crollare la sua immagine in Occidente.
I generali Huang Xueping e Michael Chase due settimane fa hanno ripristinato ufficialmente il dialogo tra l’Esercito popolare di liberazione e lo US Army, col dossier afghano al centro delle discussioni: i cinesi hanno un’ambasciata operativa in Afghanistan e devono coordinarsi con gli Usa, che continuano i loro raid “mirati”. Certo quello afghano potrebbe diventare un terreno di cooperazione proprio in funzione del comune interesse a contrastare il jihadismo, ma solo qualora Pechino e Washington riuscissero a tenerlo isolato dalla loro rivalità strategica.
Comunque sia, Pechino ha scommesso sui talebani e sulla loro capacità di convincere la comunità internazionale di essere l’unica forza in grado di “pacificare” l’Afghanistan. Martedì scorso l’ambasciatore cinese, Wang Yu, ha incontrato una delegazione di studenti coranici, i quali stanno fornendo protezione e assistenza ai diplomatici e alle poche decine di businessmen cinesi rimasti a Kabul. I primi sei mesi del 2021 hanno registrato un interscambio Cina-Afghanistan di poco più di 300 milioni di dollari (+44 per cento) e investimenti cinesi per 430 milioni di dollari, un frugale antipasto degli affari che potrebbero realizzarsi con la ricostruzione, a patto che la si riesca a finanziare.
La via della Seta
A dispetto degli attentati e degli scontri degli ultimi giorni, il nuovo inviato speciale di Pechino per l’Afghanistan ostenta ottimismo sulle capacità di governo dei talebani. Il diplomatico ha riassunto così la strategia di Pechino: «In una prospettiva costruttiva e di lungo termine, la Cina è pronta a partecipare alla ricostruzione pacifica dell’Afghanistan. Abbiamo già lavorato con molti altri paesi centroasiatici che fanno parte della nuova via della Seta. Abbiamo pronti tanti progetti per migliorare i collegamenti nella regione».
In un’intervista pubblicata nel fine settimana dal portale cinese Guancha, Yue Xiaoyong ha sostenuto che i talebani «sono entusiasti di apprendere le esperienze degli altri paesi, Cina inclusa. Gli abbiamo sempre detto che devono risolvere da soli i loro problemi, ma che noi siamo pronti a fornire assistenza». Yue ha aggiunto che la Shanghai cooperation organization (Sco) - l’organizzazione di sicurezza e cooperazione centroasiatica a guida Cina-Russia nella quale l’Afghanistan è presente in veste d’osservatore - potrebbe contribuire al mantenimento della pace a Kabul.
Tutto questo però - in un Afghanistan dipendente dagli aiuti internazionali e dal commercio di oppio - al momento sarebbe realizzabile solo se la comunità internazionale scegliesse di ingoiare un boccone amarissimo, finanziando un governo con i talebani, e favorendo gli interessi delle aziende di stato cinesi che sono pronte a fare la parte del leone nel business della ricostruzione.
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