Il patto sociale tra il Partito e la popolazione in Cina si è cementato con la crisi sanitaria dovuta all’epidemia di Covid-19
- In Cina, la vita sembra essere tornata alla normalità, lontano dalla pandemia mondiale tuttora in corso. In molti si chiedono se il gigante asiatico stia occultando qualcosa
- Eppure, nel caso di Covid-19, il governo cinese e i cittadini cinesi si sono mossi meglio di noi per una serie di rilevanti caratteristiche politiche e culturali
- L’approccio asiatico, unanimemente ricondotto al confucianesimo, ha fatto leva su un senso di collettività molto forte: tutti sanno di dover fare la loro parte per risolvere il problema. In aggiunta, è ancora forte il patto sociale che accetta il rigido controllo dello stato, pur di ricevere in cambio sicurezza
Sei l’unica persona che con le sue domande mi ricorda che c’è una pandemia in corso». Comincia così il messaggio che ho ricevuto qualche giorno fa da un amico che vive a Chongqing, megalopoli da trenta milioni di abitanti nella Cina centro meridionale. Poi continua: «Certo, usiamo le mascherine nei mezzi pubblici, ma per il resto: zero».
La vita, da quelle parti, è tornata alla normalità. Nei paesi che si ritrovano a fronteggiare la preannunciata seconda ondata del virus sembra quasi incredibile. In molti si stanno domandando come sia possibile, non senza far trapelare il sospetto che il gigante asiatico ci stia abilmente occultando qualcosa. Eppure, semplicemente, nel caso di Covid-19 il governo cinese e i cinesi si sono mossi meglio di noi per una serie di caratteristiche politiche e culturali di quel paese, mai tanto diverso dal nostro come in questo momento storico.
L’opinione pubblica cinese, contrariamente a quanto pensiamo, si indigna e protesta piuttosto spesso, come testimoniano le migliaia di manifestazioni e scioperi – in Cina vengono chiamati “incidenti di massa” – nel corso dell’anno. Pretende che il governo non commetta errori, soprattutto per quanto riguarda tre tematiche fondamentali: la sicurezza alimentare (ci sono stati diversi scandali), l’inquinamento e le emergenze sanitarie.
I leader cinesi ne sono pienamente consapevoli e sanno che gestire male questo tipo di problematiche può portare a una forte perdita di legittimità, scenario che da sempre li spaventa moltissimo.
Il modello Wuhan e Confucio
Quando il coronavirus ha raggiunto l’Italia, abbiamo parlato spesso di “modello Wuhan” per definire il lockdown, come se si trattasse semplicemente della chiusura di tutto in attesa che il virus perdesse virulenza. In realtà, quello che è accaduto nella Repubblica popolare è qualcosa di molto più complesso che rimane applicabile solo in una realtà come quella cinese: una quarantena lunga e senza eccezioni nella città focolaio e la limitazione degli spostamenti in tutto il territorio nazionale per mesi; la costruzione in tempi record di strutture ospedaliere per ospitare i malati Covid, e la contemporanea radicale diversificazione del sistema sanitario, con la netta separazione tra pazienti Covid e quelli di altre patologie; la grande reperibilità di dispositivi sanitari (tamponi, maschere, ventilatori); la sanificazione due o tre volte al giorno dei mezzi e dei luoghi pubblici; l’utilizzo, per i nostri standard decisamente invasivo, di tecnologie che hanno permesso e permettono tuttora un tracciamento molto preciso dei contagi; il controllo delle informazioni nei media che hanno diffuso messaggi univoci sulla pericolosità del virus, senza dibattiti che la mettessero in discussione.
Alla base di tutti gli interventi, tuttavia, abbiamo potuto osservare un sostrato culturale che è quasi del tutto estraneo al mondo occidentale. L’approccio asiatico, la cui matrice viene unanimemente ricondotta al confucianesimo, infatti, ha fatto leva su un senso di collettività molto forte: nel momento in cui scatta un’emergenza che mette in pericolo la stabilità del paese e il benessere dei cittadini, tutti sanno di dover fare la loro parte per risolvere il problema. Questo permette al Partito comunista cinese di giocare la carta della “mobilitazione” del popolo, la dongyuan, strumento indispensabile per ottimizzare la risposta alle emergenze e ai cosiddetti “cigni neri”.
Parola d’ordine: cautela
Nella Repubblica popolare, con Covid-19 è andata proprio così: ognuno ha fatto la sua parte perché in ballo c’era la sopravvivenza dei cittadini e dello status raggiunto dal paese. Ci sono state delle dolorose documentate eccezioni. Le immagini delle persone positive al coronavirus trascinate a forza fuori dalle case hanno generato sofferenza e molte polemiche anche in Cina, ma da molti cinesi sono state in fondo metabolizzate proprio perché, col senno di poi, ritenute necessarie ed efficaci in nome del bene comune.
Nel suo Wuhan, diario di una città chiusa (Rizzoli), la scrittrice Fang Fang ha descritto chiaramente questa particolare attitudine nel popolo cinese: «Chiunque sa che quando qualcosa in Cina viene gestito a livello nazionale, tutti si mettono in gioco e si fa ciò che è necessario fare».
Da marzo in poi, una volta superata l’emergenza, la parola d’ordine in Cina è rimasta “cautela”. Si sono susseguiti diversi rigidi lockdown localizzati nelle aree dove si è ripresentata una recrudescenza dei casi, e, in alcune circostanze, si sono sottoposte a tampone le popolazioni per isolare tempestivamente gli infetti.
Un ultimo esempio è quanto accaduto a Qingdao, dove pochi giorni fa sono stati scoperti tredici positivi: in una settimana affronteranno i test diagnostici tutti i nove milioni di abitanti della città costiera. Qualcosa di simile era già accaduto a Wuhan subito dopo la fine del lockdown: in dieci giorni sono stati effettuati screening su undici milioni di persone e il capoluogo dello Hubei è stato dichiarato Covid-free; i confini della Repubblica popolare cinese sono rimasti sigillati e chiunque è arrivato in Cina ha affrontato una quarantena di quattordici giorni (rigorosamente a proprie spese) in strutture speciali predisposte. Questo tipo di confinamento è obbligatorio ancora oggi e per alcune categorie, ad esempio gli insegnanti, anche se ci si sposta da una regione all’altra della Cina.
L’uso della tecnologia
La tecnologia e i big data hanno giocato un ruolo importante nella gestione della pandemia. Nella fase di emergenza è stato fondamentale l’uso di robot negli ospedali per misurare la temperatura dei pazienti e limitare il più possibile il rischio di infezioni da uomo a uomo in corsia.
L’utilizzo di assistenti vocali ha fatto sì che i medici di base non fossero oberati di lavoro e fossero aiutati nella gestione delle telefonate che ricevevano. In fase di ritorno alla normalità, il tracciamento dei contagi e degli eventuali contatti con individui positivi è rimasto capillare attraverso l’utilizzo dei codici prodotti sull’account delle app WeChat o Alipay ottenuti combinando dichiarazioni spontanee con i trascorsi clinici (codice verde significa che non ci sono rischi; giallo consigliati quarantena volontaria e distanziamento sociale; rosso quarantena obbligatoria).
Per mesi, mostrare il proprio codice prima di entrare nei negozi, negli uffici, nei supermercati, negli alberghi, in metropolitana è stato fondamentale per garantirsi l’accesso. Ora non più.
Da noi, una pratica simile sarebbe fortunatamente impensabile. Tuttavia, dobbiamo tenere conto che in Cina il concetto di privacy è diverso dal nostro.
I cinesi non prestano molta attenzione alla tutela dei dati personali e non temono l’invasività di molte procedure a cui si sottopongono. Sono tolleranti prima di tutto perché spesso le innovazioni tecnologiche semplificano la vita e consentono una fruizione più agile di consumi che per molti sono diventati l’obiettivo principale.
Storicamente, inoltre, il popolo cinese è sempre stato sottoposto a forme di controllo sociale, già dall’epoca della dinastia Qin (dal 221 al 206 a.C.). Infine, vige ancora, e pare si sia cementato con questa crisi sanitaria, il patto sociale tra partito e popolazione, che accetta il rigido controllo dello stato e in cambio riceve sicurezza e opportunità economiche.
Ritorno alla normalità
Ciò che a molti fa sollevare un sopracciglio è l’andamento dei dati sui contagi in Cina. Il 16 ottobre il ministero della Salute di Pechino parlava di tredici nuovi casi positivi in una nazione con un miliardo e quattrocento milioni di abitanti. Come spesso accade, i numeri cinesi rappresentano più un trend che un dato reale.
In questo caso, però, è difficile confutarli perché il Dragone sembra essere tornato alla normalità. Ne è stata prova anche la settimana di vacanza appena trascorsa, durante la quale cinquecento milioni di cittadini si sono spostati per turismo all’interno del territorio nazionale: un rischio che il governo non avrebbe mai corso se non pensasse che la situazione è sotto controllo.
Una cosa è certa: l’allerta e il senso di responsabilità da parte di tutti rimangono altissimi. «Ora nessuno ci obbliga a tenere la mascherina», mi scrive un altro amico che vive a Shanghai, «ma io e i miei vicini di casa lo facciamo comunque. Ormai ci siamo abituati e ci sembra più sicuro così».
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