- L’attivismo diplomatico per favorire il disgelo fra Cina e Usa va letta insieme alla crisi economica di Pechino per capire la moderazione mostrata dai dirigenti cinesi negli ultimi tempi.
- Xi avrebbe tentato di convincere la business community Usa a non abbandonare gli investimenti in Cina, ma come ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times «il disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina è appena iniziato. La logica aziendale è stata sostituita dalla rivalità strategica».
- Sul banco degli imputati sembra esserci il tradizionale modello di sviluppo di Pechino che da export-oriented dovrebbe passare a basarsi sul traino dei consumi interni.
Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, «ha fatto un ottimo lavoro» durante la sua visita in Cina e «siamo sulla buona strada», ha detto il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a margine di un evento sul cambiamento climatico in California. Sullo sfondo di questa visita c’è la possibilità di un incontro diretto tra i due leader, Biden e Xi.
L’attivismo diplomatico di Blinken per favorire il disgelo tra i due giganti,è una buona notizia per la buona salute delle relazioni internazionali. Ma sembra che le due dimensioni – difficoltà economica cinese e aperture della diplomazia – vadano lette insieme per meglio capire la moderazione mostrata dai dirigenti di Pechino negli ultimi tempi.
E va sottolineato che il presidente Xi Jinping ha sì incontrato Blinken, ma solo dopo aver ricevuto una serie di esponenti di primaria grandezza del mondo economico americano come Bill Gates, il fondatore di Microsoft, Tim Cook, ceo di Apple, Elon Musk, il capo di Tesla e Jamie Dimon, ad di JPMorgan, la banca di sistema più importante oggi negli Usa.
Xi avrebbe tentato di convincere la comunità d’affari Usa a non abbandonare gli investimenti in Cina. Ma, come ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times, «il disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina è appena iniziato. La logica aziendale è stata sostituita dalla rivalità strategica».
Ed è proprio questo “decoupling” che Xi Jinping vorrebbe evitare ad ogni costo, perché rischia di riportare il paese alla casella di partenza quando nel 2001 Pechino venne fatta entrare nella Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, come paese in via di sviluppo e con una serie di vantaggi competitivi ancora in vigore dopo 22 anni.
Tassi in controtendenza
Per capire lo stato di salute dell’economia cinese bisogna analizzare la sua politica monetaria perché mentre la Bce di Christine Lagarde ha alzato i tassi di interesse, la Federal Reserve di Jerome Powell ha preso una pausa di riflessione, la Banca centrale cinese è intervenuta per stimolare la crescita lenta.
Le autorità monetarie cinese hanno infatti tagliato il Lpr a un anno, dal 3,65 al 3,55 per cento e il Lpr a cinque anni, che è stato limato dal 4,3 al 4,2 per cento.
Questi tassi sono ai minimi storici ma i mercati locali non hanno ritenuto la mossa sufficiente. Anzi Pechino sembra flirtare con la deflazione e teme di seguire le orme del Giappone degli anni Novanta. Così Pechino spera che l’allentamento possa incoraggiare le banche ad aprire i cordoni della borsa e a rilanciare i consumi.
Una mossa isolata che non sarà seguita nemmeno dalla banca centrale turca che sembra orientata a aumentare i tassi per frenare l’inflazione e la svalutazione della lira. Resta il fatto che la politica monetaria cinese è in palese contrasto con le principali economie mondiali che stanno aumentando i tassi per frenare l'inflazione.
Ma nonostante gli sforzi le aspettative sullo stimolo cinese sembrano faticare a sollevare i mercati locali. Insomma il tallone di Achille della ripresa globale sembra essere proprio la Cina, con evidenti conseguenze sulla sua politica estera, finora dai toni molto assertivi a Taiwan e nel supporto all’aggressione russa in Ucraina.
Gigante dai piedi d’argilla
Cosa sta succedendo al gigante cinese che non sembra avere più la forza di tornare ai livelli di produzione ed esportazione pre-Covid?
La ripresa della Cina stenta a ripartire per vari motivi tra i quali il reshoring, cioè il ritorno di alcune produzioni negli Usa o la delocalizzazione verso altri paesi asiatici fra cui l’India, la Corea del Sud, il Vietnam, l’Indonesia e la crisi immobiliare con la costruzione di immobili che non trovano acquirenti e appesantiscono i bilanci del sistema creditizio.
Certo alla cinese Cosco, già proprietaria del porto del Pireo in Grecia, è andato il 24,99 per cento del terminal del porto tedesco di Amburgo; ma la forza del Dragone sembra aver perso smalto dopo che la Casa Bianca è riuscita a eliminare un protocollo sugli investimenti con la Cina voluto in chiave europea dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, il “Comprehensive Agreement on Investment” approvato in tutta fretta nel semestre di presidenza tedesca a fine 2020 nel momento di passaggio dei poteri da Trump a Biden.
Quella è stata la mossa politica che, insieme al Covid-19, ha cominciato a far deragliare il treno cinese.
I dati ufficiali sono impietosi: a maggio la produzione industriale è rallentata al 3,5 per cento, le vendite al dettaglio hanno deluso gli analisti, l'edilizia è ferma con grave preoccupazione del sistema creditizio, e la disoccupazione giovanile è balzata al 20,8 per cento.
Insomma sul banco degli accusati sembra esserci il tradizionale modello di sviluppo di Pechino che da export-oriented dovrebbe passare a basarsi sul traino dei consumi interni. Ma la competizione politico-militare con gli Usa sta rallentando pericolosamente questo passaggio vitale dell’economia del Dragone rompendo il fragile equilibrio tra crescita economica e politica estera assertiva.
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