L’accampamento degli studenti anti-israeliani continua a crescere ma la politica chiede misure a tutela degli studenti che si sentono aggrediti
Un centinaio di tende, una tavolata di bevande e rinfreschi, gente che gioca a pallone, altri che fanno sedute di ginnastica, piccoli dibattiti in gruppo. Il prato è piccolo ma si trova al centro della Columbia University, una delle otto università dell’Ivy League americana, nel cuore di Manhattan. Fra gli ex allievi dell’università ci sono personaggi come Ruth Bader Ginsburg e Barack Obama. Tanto basta per rilanciare, con l’aiuto dei social, la piccola protesta al centro del campus in tutti i media internazionali.
Non è la prima volta. Già lo scorso autunno, a nemmeno una settimana dal 7 ottobre, i cori «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» e le manifestazioni con le bandiere palestinesi erano finite sotto i riflettori. Ma l’entità della protesta è cambiata: gli attivisti questa volta hanno trasformato il prato all’inglese in un bivacco permanente, istituendo un servizio d’ordine che, per quanto all’acqua di rose, pattuglia il perimetro della zona occupata.
Il giro di vite
L’iniziativa è stata lanciata la scorsa settimana in concomitanza con l’udienza della Presidente dell’Università, Minouche Shafik, presso una commissione del Congresso dominata dai repubblicani. Tema: antisemitismo e un’atmosfera – presunta – di ostilità che renderebbe il campus difficile da frequentare per gli studenti ebrei. Shafik se l’è cavata meglio delle colleghe di Penn University, Elizabeth Magill, e di Harvard, Claudine Gay, costrette a dimettersi a causa degli scivoloni durante simili udienze a dicembre.
Ma la linea duramente filo-israeliana dei repubblicani, che cancella qualsiasi distinzione fra retorica anti-israeliana nel contesto della guerra di Gaza e antisemitismo, ha indotto Shafik a disporre un giro di vite contro i manifestanti. Giovedì scorso in una mail ufficiale la presidente ha annunciato di aver autorizzato la polizia NYPD a rimuovere le tende. Columbia è un’istituzione privata: ciò significa che ha discrezionalità quanto all’autorizzazione di attività politiche sul campus, oltre ad essere libera di applicare o meno il primo emendamento, la norma che consente libertà di espressione pressoché illimitata negli Stati Uniti. O applicarlo a modo suo.
«Ho intrapreso questo passo straordinario perché si tratta di circostanze straordinarie» ha scritto Shafik, spiegando di essere mortificata che la misura fosse divenuta necessaria. Gli agenti hanno rimosso e arrestato un manipolo di studenti che si rifiutavano di lasciare la zona mentre la folla intonava il coro «NYPD, Ku Klux Klan, forze di occupazione israeliane, siete tutti la stessa cosa». Fra i giovani fermati c’era anche la figlia della nota deputata Ilhan Omar, vicina a Alexandria Ocasio-Cortez.
L’indignazione generale per l’intervento della polizia, dentro e fuori la scuola di tradizione progressista, ha però fatto il gioco degli studenti quando hanno iniziato a ricostituire l’accampamento dalla parte opposta del prato. L’amministrazione non ha osato intervenire nuovamente. La repressione dei vertici universitari ha finito per avere l’effetto contrario, e il numero di tende è decuplicato.
Ora il prato è ricoperto da cartelli di cartone e striscioni con slogan come «Antisionismo non è antisemitismo», «Nessuno è libero finché la Palestina non è libera», «Resistere la potenza occupante con qualsiasi mezzo necessario», «Fuck Israel», con la parola Israele fra virgolette. La gente dipinge, chiacchiera, accoglie professori e intellettuali che arrivano per esprimere la propria solidarietà ai manifestanti.
Fra i cori si sente «Non vogliamo due stati, vogliamo tutto il territorio del 1948», «globalizziamo l’intifada», «La Palestina è araba», «Palestina libera». Si legge: «Gloria a chi fa assaggiare l’amarezza all’occupante», «il paradiso solo all’ombra della spada». Parole forti, ma i manifestanti, compresa una componente ebraica, insistono nel descriverle come inoffensive. «Per me vuol dire pari diritti per tutti nel territorio della Palestina storica», dice Noam, uno studente danese di religione ebraica, che si è anche esibito come musicista sul prato della protesta. «Il male da combattere è il fascismo, e oggi in Israele c’è un governo fascista».
Sentirsi minacciati
Ma nel vicino “Kraft Center,” un edificio del campus dedicato all’associazionismo di studenti ebrei, alla presenza del direttore della Anti-Defamation League Jonathan Greenblatt, altri studenti ebrei lamentano di sentirsi minacciati. C’è chi vive nei dormitori che si affacciano sul prato della protesta e lamenta di essere tenuto sveglio giorno e notte «da cori che inneggiano alla mia morte e a quella dei miei parenti». Altri si sono palesati nei pressi delle manifestazioni con bandiere americane e israeliane, attirandosi minacce di morte e in un caso l’insulto xenofobo «Tornatene in Polonia». Una ragazza americana di religione ebraica è stata apostrofata da un figuro mascherato con keffiyeh e bandiera palestinese: «Vedrai, per voi sarà il 7 di ottobre ogni giorno. Dieci, cento, mille 7 di ottobre».
Le esternazioni più radicali si registrano fuori dai cancelli universitari, dove si entra ormai soltanto con la tessera elettronica che certifica l’appartenenza all’ateneo. La pubblicità ha infatti attirato manifestazione collaterali – e perfino venditori improvvisati di keffiyeh e bandierine palestinesi. Vicino all’ingresso sul lato di Amsterdam Avenue, per esempio, sabato sera un manifestante ha bruciato una bandiera israeliana, spintonando e colpendo con un oggetto uno studente ebreo americano. Lunedì un codazzo di sostenitori dell’agitatore di destra pro-israeliano Shai Davidai, un professore di business a Columbia divenuto noto per la sua vena polemica sui social media, davano dei “terroristi” ai manifestanti. Il timore dell’amministrazione di Columbia è che tali elementi riescano facilmente ad intrufolarsi nell’università, provocando incidenti.
Il ribaltamento
Le parti sono in un certo senso invertite rispetto a pochi anni fa, quando sul campus infuriava il dibattito sulla “cancel culture”. All’epoca la sinistra movimentista si esprimeva a favore della rimozione di monumenti o riconoscimenti dedicati a personaggi dell’epoca dello schiavismo e delle discriminazioni contro gli afroamericani. La destra conservatrice faceva appello alla libertà di espressione per tutelarli. Esposta davanti alla scuola di giornalismo, per esempio, la statua di Thomas Jefferson era finita al centro della polemica poiché il padre fondatore americano possedeva oltre 600 schiavi.
Oggi è la sinistra a fare appello alla libertà d’espressione. La destra conservatrice invece squalifica gli slogan dei manifestanti come appelli alla violenza, e in questo senso al di fuori dei confini legittimi della libertà di espressione. Il noto filosofo liberale inglese, John Stuart Mill, aveva postulato nel suo On Liberty del 1859 che qualsiasi opinione andasse tollerata purché non provocasse “danno” ad altri.
Come ha sottolineato più volte Nicholas Lehman, professore e membro della taskforce contro l’antisemitismo di Columbia, nell’ambito delle proteste la casistica è ancora più complicata. Il dilemma è se conti l’intenzione di chi pronuncia gli slogan, oppure l’impatto, cioè il modo in cui vengono percepiti da chi si sente ferito o danneggiato. In altre parole, chi inneggia all’intifada e alla liberazione della Palestina, può cavarsela dicendo che intende promuovere pari diritti per tutti, e non espellere tutti gli ebrei? O lo studente ebreo o israeliano che interpreta l’intifada come una minaccia di morte deve essere tutelato?
La questione, ovviamente, non è soltanto etica per i vertici dell’università. Malgrado le rette siano stellari – attorno agli 80.000 dollari l’anno – esse rappresentano soltanto circa un quinto o un sesto delle entrate annuali dell’università, che si aggirano attorno ai 6 miliardi di dollari. Critici per la sua sopravvivenza sono anche i contributi diretti del governo federale – oltre un miliardo di dollari all’anno - oltre che, in parte minore, le donazioni di privati che godono per legge delle relative detrazioni fiscali. Ci sono poi i prestiti agli studenti garantiti dal governo federale, e il fatto che le rendite patrimoniali delle università non sono tassate – in tanti pensano che dovrebbero esserlo. Qualora l’amministrazione o il Congresso decidessero di fare pressione su Columbia, avrebbero insomma modo di farlo in modo efficace.
La Casa Bianca ha già mandato un ammonimento, nella forma di un comunicato. «Se da una parte ogni americano ha il diritto di protestare pacificamente, gli appelli alla violenza e all’intimidazione fisica contro studenti ebrei e la comunità ebraica sono palesemente antisemiti, inconcepibili e pericolosi» si legge nel comunicato. «E fare eco alla retorica delle organizzazioni terroristiche, soprattutto sulla scia del peggior massacro commesso contro il popolo ebraico dopo l'Olocausto, è spregevole...». In conclusione, fa sapere la Casa Bianca, «questo palese antisemitismo non ha assolutamente posto nei campus universitari, o in qualsiasi altro luogo del nostro paese”. Spostare le lezioni su zoom potrebbe non bastare. Shafik, stretta fra due fuochi, è avvertita.
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