La polarizzazione non è necessariamente un problema per le democrazie elettorali. Lo diventa quando gli attori politici la gestiscono in modo tale da escludere preventivamente la mediazione con l’altra parte e non tollerarla proprio.

In passato, quella tra Democrazia cristiana e Partito comunista fu indiscutibilmente una relazione di polarizzazione. Tuttavia, tra i due poli si praticò l’arte del compromesso, senza di che non sapremmo dare una spiegazione storico-politica sensata all’approvazione di leggi che erano di gran lunga più progressiste nei contenuti e nelle implicazioni di quel che la cultura politica della Dc (allora forza di governo) prometteva.

La società attiva, i movimenti sociali e le forze sindacali incalzavano il parlamento e i partiti, di governo o di opposizione. Quella corrente tra il dentro e il fuori delle istituzioni era in grado di governare la polarizzazione, che raramente tracimava in linguaggi di aggressione alle persone, in rapporti plebiscitari tra leader e pubblico, nel disprezzo dell’arte del compromesso (liquidata ora come “lottizzazione”).

Invece è proprio questo che verifichiamo oggi nei paesi democratici, soprattutto tra le forze politiche di destra, laddove sono al potere o scalpitano per ottenerlo o resistono per non perderlo. Finora, i tentativi di avere una destra normalizzata o moderata sono tutt’altro che riusciti. Questo è indicativo di una crisi della democrazia.

Il caso italiano

Prendiamo il caso dell’Italia. Da quando governa, dal 2022, Giorgia Meloni ha sfoderato una concezione muscolare della democrazia, che identifica con il dominio della maggioranza.

Dominio è un termine forte, ma pertinente: esprime un potere che, provenendo dalle urne, deve essere possibilmente libero da critiche. La politica si nasconde agli sguardi ispettivi di chi sta fuori del palazzo, che possono essere aggirati in vari modi; per esempio, lesinando il numero delle conferenze stampa del governo o rendendole degli show, una passerella dei successi dichiarati e assicurati, avari di fatti e di dati. Le critiche sono poco tollerate e quando possibile interrotte preventivamente o punite.

Fino a quando il governo opera nel recinto nazionale può bellamente umiliare la stampa e fare spallucce al suo diritto di libertà. Ma quando a esercitare la sorveglianza sono le istituzioni europee l’affare si fa delicato. E occorre andare ai ripari.

Fatti e fake news

In previsione della rampogna della Ue, arrivata in questi giorni, Giorgia Meloni ha ritirato la querela a Domani, per presentarsi alla Commissione in regola con lo stato di diritto e, anzi, come la vittima di forze oscure che mestano contro il governo italiano.

Da Pechino, dove è in visita, ha scritto alla “cara Ursula” che la Relazione annuale della Ue sullo stato di diritto in Italia non si discosta da quelle degli anni precedenti, «tuttavia per la prima volta il contenuto di questo documento è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il governo italiano. Qualcuno si è spinto perfino a sostenere che in Italia sarebbe a rischio lo stato di diritto, la libertà di informazione, in particolare in Rai».

Chi siano questi “alcuni” non è dato sapere. Mentre la lettera getta discredito anche sugli estensori della Relazione, incompetenti abbastanza da non riconoscere la differenza tra fatti e fake news.

Ma è una fake news che i tre canali della Rai siano bollettini governativi e la gestione della Rai sia faziosa? La destra non pratica la lottizzazione (gli accordi tra partiti), ma occupa tutto direttamente, senza fare compromessi. L’esito è una polarizzazione radicale.

Accettare la sconfitta

La retorica della cospirazione e la giustificazione della repressione in nome dell’interesse nazionale erano e restano i classici metodi della destra per relazionarsi con chi la critica. Il problema della democrazia sta dunque a destra. Sta in una destra che ha una mentalità che è preparata solo a situazioni di vittoria e di dominio.

L’allergia alla critica è segno di un problema più grande: la difficoltà ad accettare la sconfitta. In questo le destre di oggi sono tutte simili. Donald Trump ha detto in un comizio a Nashville che se avessero potuto sopportare di votare per lui un’ultima volta egli avrebbe esaudito tutti i loro desideri e non avrebbero più dovuto preoccuparsi delle urne.

«Non dovrete più farlo», ha detto. «Ancora quattro anni, sarà tutto a posto, andrà tutto bene, non dovrete più votare, miei bravi cristiani». E intanto Nicolás Maduro ha dichiarato la vittoria elettorale in Venezuela prima ancora che le urne fossero chiuse e nonostante i brogli, accusando l’opposizione di voler «rubare» la vittoria e di rovesciare la volontà popolare.

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