Mentre i candidati alla presidenza scelgono di partecipare al secondo dibattito presidenziale alla Reagan Presidential Library, l’ex presidente, colpito da una sentenza che mina seriamente la tenuta della Trump Organization, preferisce cercare il sostegno degli scioperanti dello United Auto Workers. Segno che ormai Ronald Reagan e i suoi valori sono molto lontani dal moderno partito repubblicano
Nei giorni precedenti al secondo dibattito tra i candidati repubblicani alla presidenza, l’account ufficiale Instagram della Reagan Presidential Library che ha ospitato l’evento si chiedeva se ci sia un nuovo Reagan nel mix degli aspiranti successori.
Domanda che non avrà una risposta, anche perché ormai il moderno partito repubblicano appare distante da quello creato negli anni Ottanta dalla rivoluzione reaganiana. Molti pilastri di allora sono caduti, a cominciare dal favore nei confronti dell’immigrazione.
Caduto è anche il consenso unanime sul ruolo dell’America nel mondo quale difensore della democrazia contro l’avanzata del totalitarismo. Pur rimanendo un’ampia fascia di repubblicani “tradizionali”, come alla Camera dei rappresentanti dove 130 deputati su 220 hanno dichiarato di voler continuare ad aiutare l’Ucraina, chi sposa questo nuovo isolazionismo basato sugli immediati interessi dell’America è in forte aumento, specie tra gli elettori, sempre più scettici.
Sono anche caduti però la fiducia nel mercato e nel business e qui non è solo colpa della trumpizzazione: non si contano ormai i provvedimenti del governatore della Florida Ron DeSantis contro la libertà delle imprese di chiedere certificati vaccinali ai propri dipendenti o di tenere corsi d’inclusività razziale o sul mondo Lgbtq+.
Persino l’ostilità nei confronti dei sindacati, forse il tratto più mediaticamente distintivo del reaganismo, è venuta meno, con Donald Trump che ha preferito saltare il dibattito di stanotte per fare un intervento a Detroit di fronte agli scioperanti aderenti al sindacato degli United Auto Workers (Uaw) per ripetere quanto fatto già nel 2016: conquistare abbastanza voti tra le tute blu per riconquistare la maggioranza dello stato.
Non a caso, un canale social legato alla campagna di Biden chiamato “Biden-Harris Hq” ha diffuso su X un video dove si vede il divario tra le promesse dell’ex presidente e gli effettivi risultati.
Guai giudiziari
Lo stesso Trump che deve affrontare un ulteriore caso giudiziario, che stavolta non minaccia lui direttamente, bensì la Trump Organization, il grande gruppo immobiliare che opera gran parte dell’impero economico legato al tycoon che secondo il verdetto del giudice Arthur Ergoron della Corte dello Stato di New York a Manhattan dovrebbe perdere la licenza per operare legalmente nello stato, a causa del valore fittizio assegnato agli asset della compagnia, fortemente sopravvalutati per ottenere prestiti più ingenti dalle banche nel corso di diversi anni.
Eppure, con tutta probabilità nemmeno questo intaccherà il suo standing nei confronti degli elettori militanti repubblicani che lo sosterranno in massa alle primarie. Anche perché le sue posizioni sono ormai una curiosa mistura di autoritarismo in potenza (non passa giorno dove non annunci fuoco e fiamme contro i suoi avversari politici dalle pagine del suo Truth Social) e di posizioni nuovamente moderate, come sull’aborto, da limitare ma con eccezioni, sui vaccini, da consigliare senza obblighi e persino sul mondo “woke”, che per Trump non merita attenzione più di tanto.
L’ultima notizia proveniente dai tribunali, anche qualora i suoi legali riescano a bloccare la sentenza newyorchese in appello, intaccherà non poco le sue finanze. Difficile però stabilire se sia ancora la Trump Organization la principale fonte di reddito dell’ex presidente e non siano invece le piccole donazioni che riceve quotidianamente dai suoi sostenitori che vengono inondati di e-mail scritte con tono apocalittico, dove si chiede loro un sostegno anche per “difendere la libertà e riprendersi il Paese”.
Mentre Trump era in Michigan di fronte alle tute blu, dove ha proposto il suo schema contro la transizione ecologica che “ruba i posti di lavoro”, dall’altra parte del paese, in California, nella Reagan Library a moderare lo scontro tra i candidati che possono soltanto ambire a un posto in un’eventuale posto in una seconda amministrazione Trump, è stata scelta una perfetta incarnazione del Gop che fu, Dana Perino, giornalista e anchorman di Fox News, già portavoce della Casa Bianca all’epoca di George W. Bush e una delle poche figure del network a non essersi sperticata in lodi nei confronti del tycoon.
Nemmeno l’ottimismo
Cosa resta di Reagan, quindi, se non la sua icona svuotata da ogni contenuto politico? Nemmeno l’ottimismo: per l’ex attore hollywoodiano i migliori giorni dell’America dovevano “ancora arrivare”.
Per i candidati post-trumpiani invece c’è sempre un pericolo a cui far fronte: i vaccini “non sicuri” per DeSantis, gli investimenti green per l’imprenditore del tech Vivek Ramaswamy, la perdita dei valori per uno dei candidati più reaganiani di tutti, l’ex presidente Mike Pence, che pure si spinge a chiedere un divieto nazionale di aborto che Reagan non aveva nemmeno mai osato invocare.
In questo anche Trump è simile ai suoi competitor, con le continue strizzate d’occhio al mondo cospirativo di QAnon all’interno delle sue dichiarazioni.
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