Dieci anni fa l’Egitto è stato attraversato da venti rivoluzionari che hanno portato alla deposizione del regime trentennale di Hosni Mubarak. Da otto anni il potere è tornato nelle mani del generale Al Sisi che ha incarcerato oltre 60mila fra attivisti e dissidenti. Ma c’è chi è riuscito a scappare, come Ahmed e Sayed
- Dieci anni fa la rivoluzione egiziana che mise fine il regime di Hosni Moubarak. Tuttavia, l’euforia di quei giorni rivoluzionari si è spenta in meno di due anni con il colpo di stato del 3 luglio del 2013 del generale Al Sisi che ha fatto terra bruciata attorno a sé.
- C’è chi, però, è riuscito a scappare in Europa: sono decine i giovani che compongono la diaspora egiziana e continuano a denunciare le violenze del regime. Tra questi ci sono Ahmed Ali e Sayed Naser, ora rifugiati politici in Spagna e Italia.
- All’inizio è stato difficile integrarsi in un paese di cui non si conosce assolutamente nulla, ma ora sono convinti che dall’Europa sono più utili alla causa rivoluzionaria.
Dieci anni fa le strade centrali del Cairo sostenevano il peso di milioni di egiziani. A piazza Tahrir c’erano copti e musulmani, uomini e donne che hanno riscritto la storia del paese. In meno di venti giorni sono stati spazzati via trent’anni di dittatura di Hosni Mubarak.
Tuttavia, l’euforia di quei giorni rivoluzionari si è spenta in meno di due anni con il colpo di stato del 3 luglio del 2013 del generale Al Sisi, che ha fatto terra bruciata attorno a sé. Studenti, giornalisti, difensori di diritti umani e docenti sono tutti finiti nel girone dell’inferno costruito da Al Sisi all’interno delle sue carceri. C’è chi, però, è riuscito a scappare in Europa.
Sono decine e decine i giovani che compongono la diaspora egiziana e continuano a denunciare le violenze del regime. Tra questi c’è Ahmed Ali, coordinatore dell’Egyptian Commission of rights and freedom e cofondatore della Ong Intersection Association of human rights and freedom. Oggi Ahmed si trova in Spagna, più precisamente a Valencia. È un rifugiato politico, lavorava come fotogiornalista e faceva parte del Movimento giovanile 6 aprile nato in Egitto nel 2008. È scappato dal suo paese dopo essere stato arrestato il primo settembre del 2014.
Quella sera stava facendo un servizio sull’anniversario della morte di Ahmed Al Masri, uno dei membri del “movimento 6 aprile” ucciso dai servizi di sicurezza il primo settembre del 2013. Prima di morire Al Masri stava ricoprendo le proteste di Rabaa per il suo blog. «A un anno dalla sua morte volevo intervistare i suoi famigliari e raccontare la sua storia», dice Ahmed. «Erano le dieci di sera quando sono venuti gli agenti in borghese, ho spiegato loro che stavo cercando di fare il mio lavoro da giornalista, ma mi hanno strappato i documenti e hanno requisito la mia attrezzatura».
Quella sera lo hanno portato in un carcere non ufficiale, si trova a dieci chilometri e mezzo dal Cairo sulla strada verso la città marittima di Alessandria. Lì c’è stato cinque notti. «Non era una vera e propria prigione, è più una specie di accademia di polizia, ma tutti sanno che ci portano gli attivisti e i difensori di diritti umani», racconta. Ha chiesto più volte informazioni sul suo caso, ma non ha ricevuto risposte. Le accuse che gli hanno rivolto sono parte del solito pacchetto preconfezionato che permette ad Al Sisi di spegnere ogni minima voce di dissenso: interruzione pubblico servizio, creazione di fake news, provocazione di scioperi, minare la sicurezza nazionale e così via. «C’è gente che è stata arrestata semplicemente per aver scritto dei post su Facebook. La sicurezza nazionale tratta ogni tuo post come se fosse un articolo di un giornale e ti arrestano con l’accusa di pubblicare fake news», spiega Ahmed con indignazione.
Stesso destino è toccato a Sayed Naser, anche lui rifugiato politico, un ragazzo di 26 anni che si trova in Italia da meno di due anni. Anche Sayed faceva parte del Movimento giovanile 6 aprile ed è anche a causa della partecipazione attiva all’interno dell’organizzazione politica che è stato arrestato più volte. Lo sottoponevano a continui interrogatori, gli agenti facevano spesso irruzione a casa sua devastando tutto quello che capitasse tra le loro mani. Più volte lui e la sua famiglia hanno dovuto trasferirsi e puntualmente la violenza della polizia bussava alla sua porta. Su consiglio dell’avvocato si è trovato costretto a lasciare il Paese.
La vita fuori dall’Egitto
Sia Sayed sia Ahmed ora sono al sicuro nei rispettivi paesi europei, ma non è stato facile. «All’inizio ho fatto fatica – racconta Ahmed – non sapevo nemmeno dire “hola”. Ma adesso ho imparato la lingua, la cultura e mi sono integrato, mai avrei pensato in vita mia di dover vivere in Spagna». Per Sayed la stabilità è arrivata soltanto dopo un anno e mezzo, quando le pratiche burocratiche per ottenere lo status di rifugiato e i documenti si sono concluse.
Vivere da soli, lontano dalla famiglia e dalla società in cui sei cresciuto ti stravolge la vita. «Appena arrivato è stato difficile, non conoscevo nessuno, non avevo soldi e dovevo cominciare una nuova vita. Ho provato a sopravvivere e ancora oggi non ho trovato un buon lavoro. Porto avanti il mio attivismo e al tempo stesso cerco lavoro, e non è facile conciliare le due cose», racconta Sayed. Nessuno dei due però ha perso la speranza. «La gente merita il nostro impegno, molti continuano nel loro piccolo a protestare e a denunciare i crimini dello stato rischiando l’arresto», dice Ahmed.
Entrambi sono convinti che qui in Europa possono essere più utili alla causa. La Ong di cui Ahmed è membro ha lavorato al caso Regeni collaborando anche con i genitori di Giulio e il presidente della Camera Roberto Fico. Sia Sayed sia Ahmed partecipano a vari eventi in giro per l’Europa e per le città dei loro nuovi paesi. «Quest’anno a causa della pandemia ci ritroveremo tutti online, su Facebook, Zoom e altre piattaforme», dice Ahmed raccontando come passerà il decimo anniversario della rivoluzione.
Il ricordo della Rivoluzione
Il 25 gennaio 2011, giorno in cui è iniziata la rivoluzione egiziana, Sayed era un giovane teenager di 16 anni e Ahmed era da poco maggiorenne. «Dieci mesi prima dell’inizio delle proteste ero venuto a conoscenza della storia di Khaled Said, il ragazzo torturato e ucciso dalla polizia. Ricordo che quell’avvenimento mi aveva fatto decisamente arrabbiare», ricorda Sayed. «Ho iniziato a leggere notizie sulla politica nazionale e a gennaio sono andato davanti gli uffici amministrativi a guardare da lontano le proteste» racconta. «Era fantastico, le strade erano piene di persone, la polizia ne ha arrestate tantissime. Sono tornato a casa e ho sentito alla televisione di gente uccisa nelle proteste, a quel punto, il 28 gennaio, ho deciso di dover fare la mia parte».
Sono stai giorni difficili, la polizia usava la forza e le manganellate. Dove non arrivavano le botte ci pensavano i proiettili. Il bilancio è di 1.075 morti in 22 diversi governatorati del paese, anche se secondo le stime ufficiali del Consiglio supremo delle forze armate sarebbero state 840 le vittime.
«Molti sono stati arrestati e torturati. Internet è stato bloccato, e la rete non funzionava. Ricordo che tante persone andavano a piazza Tahrir a cercare i loro famigliari che non tornavano a casa» racconta Sayed. I ricordi brutti lasciano spazio anche a quelli belli. «Durante i diciotto giorni della rivoluzione la vita si svolgeva in piazza. Eravamo uniti, ci prendevamo cura l’uno dell’altro, soprattutto nei momenti difficili. Ridevamo, cantavamo e ci facevamo forza a vicenda». Sono stati giorni memorabili, che hanno stravolto la vita di milioni di egiziani. «La mia vita è cambiata moltissimo – dice Sayed sorridendo – sono un’altra persona. All’epoca avevo 16 anni, non avevo esperienze e non conoscevo nulla. Ora posso dire che posso fare del buon attivismo e continuare la mia attività anche all’estero. È stato difficile vedere certe immagini, chi ha visto amici morire durante la rivoluzione è diventato più forte».
Il fallimento di una rivoluzione
In pochi anni la rivoluzione è stata inghiottita dalle forze controrivoluzionarie degli apparati militari che hanno riportato il potere nelle loro mani. Dal 2013 ad oggi il generale Al Sisi ha costruito 13 nuovi carceri e imprigionato dai 60mila ai 100mila attivisti e dissidenti politici. Molti si chiedono come sia stato possibile che in meno di due anni tutto sia tornato come prima, o anche peggio di prima. C’è chi sostiene che una volta fatta la rivoluzione gli egiziani non avevano idea di come concretizzare politicamente le loro istanze e questo ha favorito il ritorno della vecchia classe militare.
«Non eravamo pronti politicamente? Forse è vero, ma la realtà è che non abbiamo mai avuto la possibilità di organizzarci», spiega Ahmed. Ogni istinto politico è sempre stato soffocato sul nascere. Quando Moubarak non ci riusciva con gli arresti o con le intimidazioni ci pensavano la stampa e la televisione nazionale a montare casi ad hoc per screditare il valore di un certo personaggio politico. Tuttavia, non tutto è da buttare. L’egiziano Ala Al Aswani, uno degli scrittori più conosciuti nel mondo arabo, durante la presentazione del suo ultimo libro a Roma ha detto che la rivoluzione ha creato uno spartiacque e ha cambiato radicalmente l’accezione culturale del paese.
Anche Sayed la pensa così: «Ora abbiamo maggiore consapevolezza di tante cose, prima della rivoluzione non sapevamo nemmeno cosa fossero i diritti umani. Ora c’è una nuova generazione di persone capace di imparare dalla nostra storia e dai nostri errori. Ora sappiamo come attaccare il potere militare, prima non lo sapevamo».
Le relazione tra Italia, Spagna ed Egitto
Sia Ahmed sia Sayed guardano comunque con diffidenza alle relazioni tra i loro nuovi paesi e l’Egitto. «Negli ultimi anni la Spagna è diventata partner commerciale con l’Egitto, anche con la vendita di munizioni militari», dice Ahmed che è critico soprattutto nei confronti dei governi europei. «Loro non si interessano di noi, della Siria o della guerra in Yemen, non gli interessano i diritti umani, il loro obiettivo è solo fare affari e guardare i propri interessi».
Sayed, invece, non riesce a spiegarsi come mai i governi italiani che si sono succeduti dal 2016 ad oggi abbiano assunto una politica ambigua e di appeasement, prima con il caso Regeni e ora con il caso di Patrick Zaki, nei confronti di Al Sisi. «Nonostante Al Sisi non abbia collaborato per il caso di Regeni l’Italia ha continuato a supportare l’Egitto. Non mi è chiaro come mai l’Italia sostenga un governo che non rispetta i diritti umani, non riesco veramente a capirlo». dice Sayed.
Entrambi vogliono poter tornare un giorno nel proprio paese tra le braccia delle loro famiglie. Le prospettive dopo oramai quasi otto anni di regime militare non sono positive. Però Sayed ci tiene a precisare che: «Potrebbe accadere di tutto, nessuno lo sa, d’altronde la rivoluzione è iniziata in un giorno e nessuno ha ricevuto l’invito».
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