- Sono abituata alle incognite del mese di agosto in oriente, ho sempre tirato ai dadi col meteo: Cina, Thailandia, Giappone, Myanmar, India, il mio dado è sempre stato quello col numero più alto.
- Poi è arrivato l’8 agosto 2022 a Seoul, in cui mi trovo in vacanza. Una giornata insospettabile, di quelle che poi ripercorri all’indietro per cercare l’ombra di qualche presagio.
- Tutte le mattine mi sveglia un messaggio broadcaster sul telefonino da parte della città metropolitana di Seoul in cui mi si avvisa di eventuali pericoli o mi si invita ad avere comportamenti prudenti, come non nuotare in canali e fiumi inquinati.
Chi non ha mai cercato riparo da un monsone non ha mai cercato riparo dalla pioggia. Quella vera. Potente. Che cala dall’alto come mannaia liquida, pesante. E che ho visto martedì, per prima volta nella sua versione più implacabile, a Seul.
Sì, avevo vissuto una giornata di monsone arrogante a Yangoon, in Myanmar, qualche anno fa, ma in poche ore la città era tornata asciutta ed ero riuscita perfino a visitare la pagoda Shwedagon Paya senza impermeabile.
Sono abituata alle incognite del mese di agosto in oriente, ho sempre tirato ai dadi col meteo: Cina, Thailandia, Giappone, Myanmar, India, il mio dado è sempre stato quello col numero più alto. Poi è arrivato l’8 agosto 2022 a Seul, in cui mi trovo in vacanza. Una giornata insospettabile, di quelle che poi ripercorri all’indietro per cercare l’ombra di qualche presagio.
La giornata era grigia, ma perfino meno di altri giorni. Il solito caldo che increspa i capelli non appena si apre la porta dell’hotel, i vestiti incollati alla schiena, la mascherina (qui obbligatoria al chiuso e sui mezzi pubblici) che fa boccheggiare.
Le previsioni meteo non erano particolarmente infami. Sì, era prevista pioggia, ma qui a Seul da una settimana la pioggia è prevista quasi tutti i giorni e poi magari non cade una goccia. Il governo, poi, sugli allarmi meteo e sulla sicurezza dei cittadini è rigorosissimo.
Tutte le mattine mi sveglia un messaggio broadcaster sul telefonino da parte della città metropolitana di Seul in cui mi si avvisa di eventuali pericoli o mi si invita ad avere comportamenti prudenti.
Per esempio, mi si chiede di non nuotare in canali e fiumi inquinati, di non lasciare soli i bambini, si danno suggerimenti di buonsenso.
Ammetto che i primi giorni, quando leggevo sul display del cellulare “avviso per la sicurezza pubblica” (in italiano, non chiedetemi come sia possibile) pensavo a un missile in arrivo dalla Corea del Nord, poi piano piano ho iniziato a capire che erano i consigli della nonna. I coreani sanno essere avvolgenti, protettivi, accoglienti.
Seul che affoga
Martedì il governo non ha inviato alcun messaggio allarmante. Il solito: non affogare e non far affogare i tuoi figli, più o meno. Non avevano capito che di lì a poche ore sarebbe affogata Seul. Quindi, nonostante la leggera pioggia mattutina, ho rispettato i piani della giornata, con la massima serenità: io e il mio fidanzato saremmo andati al grande mercato alimentare Gwangjang, mentre mio figlio e la sua fidanzata sarebbero andati in un grande negozio manga oltre il fiume. Insomma, ci saremmo separati per la prima volta dall’inizio della vacanza.
Al mercato alimentare ho imparato la prima lezione: quando è ora di mangiare, cioè sempre per i coreani, non c’è pioggia che tenga.
Il mercato era pieno di gente, l’acqua si infilava tra le fessure della grande tetto del mercato coperto, pioveva sui banconi, sulle tonnellate di cibo esposto, nei pentoloni di kimchi, pioveva sulle nostre teste, quelle dei (pochi) turisti curiosi e affamati e insomma, tutta questa cantilena dannunziana per dire che sì, era una giornata uggiosa, ma sembrava una giornata uggiosa come tante, figuriamoci in vacanza quando si hanno i giorni contati e l’entusiasmo della scoperta.
Consumati i nostri tteokbokki (gnocchi di riso con salsa piccante) nel chiosco di una anziana signora pragmatica (un rotolo di carta igienica al posto dei tovaglioli e finito l’ultimo boccone subito fuori dal balle), i nostri programmi hanno iniziato a cambiare.
Dovevamo andare lungo il fiume a fare un passeggiata, ma continuava a piovere. Mio figlio, intanto, sarebbe andato a fare un giro nel quartiere universitario. “Ma non piove?” gli ho scritto io. “Pochissimo”, mi ha rassicurata.
Io e il mio fidanzato allora ci siamo diretti in uno dei tanti spettacolari centri commerciali di Seul. Mentre eravamo in taxi ha iniziato a piovere più forte. Sul telefono nessun messaggio dal servizio di sicurezza nazionale.
Pioveva sempre più forte. “Vabbè i monsoni sono così, ora sono secchiate d’acqua, tra un’ora c’è il sole”, ci siamo detti. Abbiamo fatto shopping, aspettando che spiovesse, ma ormai erano le sei del pomeriggio e pareva un monsone piuttosto resistente, per cui siamo usciti dal centro commerciale per tornare in hotel.
Apriti cielo, si dice in questi casi. Ecco, in effetti il cielo si è aperto – squarciato direi - per rovesciarci addosso una quantità d’acqua tale che in cinque secondi netti sembravamo due naufraghi recuperati col gancio dell’elicottero nell’oceano Atlantico.
Tra parentesi, i coreani hanno uno strano rapporto con la pioggia, nel senso che non sono evidentemente abituati ad associarla alla parola “commercio”.
Mentre in qualunque parte del mondo alla prima goccia d’acqua inciampi in qualcuno che vuole venderti un ombrello, un impermeabile, un tetto in vetroresina, a Seul è praticamente impossibile trovare un k-way. Uno che domani apre un negozio di k-way a Myeondong, nel centro di Seul, diventa il nuovo Bill Gates.
L’assalto del monsone
In compenso, se nessuno vuole venderti un sistema per ripararti dalla pioggia, c’è chi vuole regalartelo: eravamo in condizioni talmente pietose che, nel mezzo della tempesta, mentre cercavamo un taxi, un ragazzo coreano che stava rientrando in ufficio ci ha fermati per regalarci il suo ombrello. Lì abbiamo capito che la situazione era seria.
I taxi vagavano impazziti e i tassisti, appena sentivano dove dovevamo andare, andavano via senza neppure risponderci. Abbassavano il finestrino, ci guardavano come se fossimo deturpati da pustole di vaiolo delle scimmie, e scappavano senza proferire parola. Uber era in tilt, il primo autista disponibile si trovava più o meno a Taiwan. La metropolitana era lontana.
Ci siamo rifugiati sotto la tettoia di un grande hotel e lì abbiamo guardato il monsone aggredire la città in tutta la sua maestosa tracotanza. Non c’era modo di opporsi, eravamo arresi all’acqua sulle strade, sui vestiti, sulla faccia.
Pioveva a vento, un vento che era in tutte le direzioni e non lasciava scampo. Dopo un’ora e mezzo di tentativi disperati di salire su un taxi, implorando i dipendenti del grande hotel di aiutarci a tornare nel nostro quartiere con promesse di case intestate in Italia e un posto a Sanremo giovani, mentre le persone si avventavano sui pochi taxi liberi con la ferocia di chi punta alla sopravvivenza durante una carestia, ci siamo buttati sotto l’acqua, vinti, verso l’unica via di salvezza possibile: la metropolitana.
Mio figlio intanto mi mandava video su whatsapp della pioggia sul tetto del tunnel sotto al quale si era riparato. Sembrava una raffica di mitra. A Seul, ormai lo sospettavamo, stava piovendo come mai era successo negli ultimi ottanta anni. In dodici ore è piovuta l’acqua che solitamente piove in tutto il mese di agosto.
Nel giro di pochi minuti sui social sono diventate virali foto di strade sotto un metro d’acqua, di tombini che vomitavano acqua, di quartieri come Gangnam completamente allagati, di cittadini appena usciti dall’ufficio, in giacca e camicia, seduti sui tetti delle macchine, con l’acqua fino ai finestrini.
Finalmente i messaggi di pubblica sicurezza hanno smesso di essere i consigli della nonna e sono diventati preziose indicazioni per conoscere le aree della città più colpite dagli allagamenti. Il telefono ha vibrato ininterrottamente per ore, indicando le criticità e le zone di Seul più colpite e a rischio.
Senza fine
Noi siamo riusciti a tornare in hotel e così anche mio figlio, ma in molti sono rimasti bloccati su autobus allagati e stazioni della metropolitana invase dall’acqua. Sto scrivendo più di 48 ore dopo l’inizio del monsone e posso dire che la pioggia non si è mai fermata. Stamattina sul mio display appariva la scritta: è consigliato rimanere a casa.
I tg coreani mostravano immagini apocalittiche di mezza Seul sotto l’acqua e la notizia di morti e dispersi era ormai sui siti di tutto il mondo.
Qui non è un avvenimento considerato normale, specie ad agosto, specie con esiti così catastrofici.
Non siamo spaventati, questo no, ma senz’altro impressionati. Soprattutto perché veniamo da un paese in cui da mesi parliamo di siccità e ci troviamo di fronte a quello che qualcuno definirebbe “problema opposto”, ma che forse opposto non è.
Perché mentre le previsioni meteo quest’estate sbagliano in tutto il mondo, c’è una previsione universale che pare di un’esattezza impressionante, negli ultimi tempi: una bottiglietta di plastica buttata in mare in Salento, provoca un uragano dall’altra parte del mondo. Magari in Corea. E domani chissà.
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