- Un terremoto geopolitico ci consegna un Mediterraneo trasformato: ora contano l’Arabia Saudita e la Turchia.
- Noi occidentali abituati a calcoli materiali o alla fredda contabilità degli interessi economici, non dobbiamo sottostimare il potere dei simboli: Turchia e Arabia si sfidano per «i cuori e le menti» dell’islam sunnita globale.
- In tale contesto l’Italia è sola e deve ripensare la propria influenza. Urge una politica unitaria euro-mediterranea che veda Italia e Francia concordare la strategia e trascinare con sé la Germania.
La politica mediterranea dell’Italia va rifatta daccapo. Oggi è tutto molto diverso dal passato: l’ombrello americano non c’è più e oltreoceano la Russia non fa più paura; altre potenze tendono a colmare il vuoto come la Turchia; Israele non è circondato da nemici e la guerra con gli arabi non è all’ordine del giorno. Le primavere arabe degli anni 2011-2013 hanno dato il colpo di grazia al fronte anti sionista: Libia a pezzi, Siria svuotata, Iran isolato, mentre l’Iraq era già infragilito dalle Guerre del golfo.
Un terremoto geopolitico ci consegna un Mediterraneo trasformato: ora contano l’Arabia Saudita e la Turchia, che si sfidano per il controllo dell’universo sunnita (l’80 per cento del mondo musulmano), mentre l’Iran resta il solitario campione dell’estremismo sciita (il restante 20 per cento). Il duello sulla Siria è stato apparentemente vinto da Russia e Iran, anche se ereditano un paese distrutto: non ci sono i soldi per ricostruirlo e mancano all’appello circa dieci milioni di siriani fuggiti all’estero.
Al contrario, la Turchia è riuscita ad ottenere alcuni risultati come respingere i curdi siriani lontano dalla frontiera meridionale e mantenere il controllo di una porzione di territorio siriano. Forse il suo successo più grande è stato l’accordo con Mosca, che ora è operativo anche in Libia. In tal modo Ankara entra nel novero delle medie potenze che si contendono il Mediterraneo: una rivincita sulla storia.
La sfida alla Grecia sulle isole del Dodecaneso e la vecchia diatriba su Cipro (divisa in due del 1974) tornano a farsi calde, così come la questione delle antiche chiese di Istanbul. Si tratta di contenziosi che al presidente turco Recep Tayyp Erdogan non erano mai stati a cuore ma ora Ankara ha urgente necessità di rafforzare la simbolica imperiale ottomana per contrastare Riad, protettrice dei luoghi santi islamici Mecca e Medina.
La «pace di Abramo» tra Israele ed Emirati rappresenta la risposta saudita a tale disfida, con la facoltà di stendere una mano (simbolica) sul terzo luogo santo musulmano, cioè Gerusalemme.
Il potere dei simboli
Noi occidentali abituati a calcoli materiali o alla fredda contabilità degli interessi economici, non dobbiamo sottostimare il potere dei simboli: Turchia e Arabia si sfidano per «i cuori e le menti» dell’islam sunnita globale.
La trasformazione di Aghia Sophia in moschea è stata salutata con soddisfazione in Indonesia e Pakistan, mentre sull’altro fronte molti media arabi hanno sorprendentemente plaudito alla «pace di Abramo», dando voce a un’opinione che vuole girare pagina dopo tante sconfitte.
Si vuole mettere fine all’«infelicità araba», come la chiamava Samir Kassir, compianto direttore del quotidiano libanese An Nahar, che ha frustrato intere generazioni.
Stretto nella morsa tra Fratelli musulmani ed esercito, il Cairo ha perso ogni appeal mentre la rivoluzione islamica iraniana non accende più l’immaginazione dei giovani. Restano padroni del campo Erdogan e Mohammed bin Salman, il crown prince saudita.
In tale contesto l’Italia è sola e deve ripensare la propria influenza, consapevole che ritirarsi dietro le proprie frontiere sarebbe perdente. Urge una politica unitaria euro-mediterranea che veda Italia e Francia concordare la strategia e trascinare con sé la Germania.
Nell’attesa che ciò avvenga, occorre giocare un ruolo costruttivo in Libia nel negoziato tra Tripoli e Bengasi, senza doppi fini (leggi: migratori), rafforzando la mediazione marocchina e onusiana. Allo stesso tempo è inevitabile studiare un percorso di rientro in Siria, iniziando dalla riapertura della nostra ambasciata a Damasco.
Mantenere l’attuale distanza non è efficace e la crisi del Covid-19 ci offre un’opportunità umanitaria e politica. Le nostre imprese attendono tale svolta ma soprattutto la chiedono le chiese siriane, i missionari e le minoranze. Avere relazioni ufficiali in Siria non significa piegarsi alle esigenze di Bashar al Assad o del suo regime: dobbiamo uscire dal complesso “o tutto o niente”, estremamente dannoso in politica estera.
Rientrare in Libano
Le polemiche agostane contro i prestiti agevolati e le erogazioni al bilancio della Tunisia non devono intimidire il governo: la Farnesina può illustrare alla nostra opinione pubblica il vantaggio nel finanziare il paese dirimpettaio, l’unica democrazia araba esistente. Terrorismo e Covid-19 hanno distrutto il settore turistico tunisino: per evitare fughe di massa occorre investire massicciamente e offrire molti aiuti.
La cooperazione si dovrebbe concentrare sulla Tunisia con maggior coraggio. Come fu fatto per l’Albania, l’Italia deve adoperarsi per assistere mantenendo le sue posizioni di primo o secondo partner commerciale.
A Beirut la crisi è più complessa e il presidente Macron si sta impegnando a rinsaldare un nuovo patto politico tra sciiti, sunniti e maroniti.
L’Italia deve dare il suo apporto a tali negoziati: glielo impone la presenza dei suoi soldati dal 2006. Roma lo pretenda da Parigi senza complessi: in assenza delle nostre truppe la crisi peggiorerebbe. A ciò va affiancato un aiuto finanziario adeguato che controbilanci le influenze dei paesi del Golfo.
Con Beirut siamo stati per decenni tra i primi partner commerciali (come pure in Siria): è nostra convenienza riprendere tale posizione. Hezbollah è sulla difensiva e la società chiede più diritti: il momento è propizio per giocare un ruolo nuovo che aiuti l’economia libanese ed eviti il naufragio della classe media. Senza quest’ultima non ci può essere né stato laico né democrazia.
Con impegno e continuità l’Italia può salvare la pace in Libia e rappresentare una via di uscita dall’interminabile e violento dopoguerra siriano. Ma l’obiettivo minimo della politica estera italiana dovrebbe essere almeno quello di preservare la pluralità di modelli nel Mediterraneo, evitando che Libano e Tunisia cadano in mano alle influenze conservatrici e rigoriste che oggi si contendono l’egemonia nel mondo islamico.
La fragile democrazia tunisina e il tradizionale pluralismo religioso libanese sono pieni di difetti ma rappresentano la cosa più vicina all’umanesimo europeo che esista oggi nel Mediterraneo. Se non corriamo in loro difesa, il nostro futuro sarà peggiore.
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