Nel pomeriggio di giovedì l’organizzazione non-governativa World Central Kitchen (Wck) ha lavorato senza sosta per caricare trecento tonnellate di aiuti umanitari su una nave ormeggiata nel porto cipriota di Larnaca. Fagioli, carote, tonno in scatola, riso, farina, olio e sale destinati alla popolazione civile di Gaza.

Nel frattempo, una seconda nave carica di altre 200 tonnellate di cibo salpata martedì si stava avvicinando alla Striscia. Non riuscendo a raggiungere con sufficienti aiuti umanitari il popolo martoriato dalla guerra per altre rotte, stati, Ong e organizzazioni internazionali tentano la rotta via mare. Wck, che sta collaborando con l’Ong spagnola Open Arms, gli Emirati Arabi e il governo di Cipro, sta anche costruendo un molo di 60 metri sulle sponde di Gaza, per poter meglio scaricare i bancali di cibo e altri mezzi di sussistenza.

Dopo più di cinque mesi di guerra, attenuare la spaventosa crisi umanitaria causata dalla guerra e dall’impossibilità di far entrare adeguati aiuti umanitari nella Striscia è diventata una corsa contro il tempo, piena di ostacoli di ogni tipo. Già prima della guerra, gli aiuti umanitari erano determinanti per la sussistenza degli abitanti di Gaza.

In media, circa 500 camion carichi di beni di prima necessità entravano quotidianamente a Gaza. La prima settimana di marzo, ne sono entrati in media solo 164 al giorno.

«Il problema è un mix di logistica e sicurezza», spiega a Domani Tommaso Della Longa, portavoce della Federazione Internazionale della Croce Rossa. Per raggiungere il valico di Rafah, sul lato egiziano a sud della Striscia, per esempio, i camion di aiuti devono attraversare la zona del Sinai, che significa varie ore di guida, poi superare controlli molto stringenti al confine, che implicano anche il carico e scarico degli aiuti, spesso a mano.

Una volta entrati a Gaza, il problema logistico continua, perché la guerra ha distrutto molte infrastrutture, comprese le strade. Qui, poi si aggiunge la questione sicurezza per il trasporto e la distribuzione del cibo. «Non esiste operazione umanitaria senza sicurezza. Il tema qui è la protezione e il rispetto degli operatori umanitari come ovviamente dei civili», dice Della Longa.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza, citato dall’agenzia Reuters, mercoledì sera sono stati uccisi dall’esercito israeliano sei palestinesi e ferite decine di altri mentre aspettavano camion di aiuti a Gaza City. L’esercito non ha risposto a una richiesta di commento dell’agenzia.

Disperazione

A fine febbraio, più di 100 persone erano rimaste uccise in simili circostanze. Le autorità sanitarie di Gaza hanno accusato l’esercito israeliano di avergli sparato, mentre Israele si è difeso dicendo che la gente era morta schiacciata dalla folla che aveva assalito i camion di aiuti.

Martedì, il World Food Program è riuscito ad entrare con un convoglio di camion umanitari a Gaza City per la prima volta dopo 20 giorni e distribuire beni alimentari a 25.000 persone, in quella zona a nord della Striscia dove il problema della carenza di cibo è ancora più devastante.

«Con le persone nel nord di Gaza a rischio di carestia, abbiamo bisogno di consegne tutti i giorni e di più punti di entrata direttamente a nord» ha avvertito l’agenzia delle Nazioni Unite su X.

La maggior parte degli aiuti viene ispezionata alla dogana di Kerem Shalom, il punto di frontiera tra l’Egitto, Israele e Gaza, oppure entra attraverso il valico di Rafah. Il Wfp aveva deciso di sospendere il trasporto di aiuti umanitari a nord della Striscia il 20 febbraio «fino a quando non ci sarebbero state le condizioni per distribuirli in sicurezza».

Ci avevano poi riprovato il 5 marzo con un convoglio di 14 camion, ma senza successo. Gli aiuti sono stati bloccati al checkpoint di Wadi Gaza dall’esercito israeliano (Idf) e rispediti indietro dopo un’attesa di tre ore. Sulla via del ritorno i camion sono stati fermati da una folla di gente disperata, che ha saccheggiato il convoglio, sottraendo circa 200 tonnellate di aiuti.

La situazione peggiora di giorno in giorno tanto da aver scatenato violente accuse ad Israele di non fare abbastanza perché i civili di Gaza vengano soccorsi dalle organizzazioni umanitarie.

L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Josep Borrell, parlando al Consiglio di sicurezza dell’Onu questa settimana, ha detto senza mezzi termini che la fame a Gaza è usata come «un’arma di guerra», aggiungendo che gli accessi agli aiuti via terra rimangono «artificialmente chiusi». Accuse rincarate giovedì dal commissario europeo per la gestione delle crisi, Janez Lenarčič. «Sarò molto chiaro sugli aiuti umanitari per via marittima e aerea: noi ed altri lo stiamo facendo esclusivamente perché Israele non apre altre vie terrestri» ha dichiarato Lenarčič. Secondo le Nazioni Unite ci sono almeno 576.000 persone, ovvero un quarto della popolazione della Striscia, che sono a rischio imminente di carestia.

Rispondendo alla pressione internazionale e, in piccola parte anche interna, di permettere l’accesso di più cibo nell’enclave, il portavoce dell’Idf Daniel Hagari ha detto mercoledì che Israele cercherà di «inondare» Gaza di aiuti umanitari. Ha dichiarato che Israele non ha mai posto limiti all’entrata degli aiuti e incolpato le organizzazioni umanitarie per i ritardi nelle consegne, ammettendo però che il grosso problema è la distribuzione degli aiuti una volta entrati nella Striscia.

Citando il convoglio del Wfp di questa settimana, Hagari ha detto ai giornalisti che altri convogli di quel tipo sarebbero entrati attraverso diversi punti di accesso, in aggiunta gli aiuti inviati per via marittima ed aerea, diversificando continuamente gli accessi all’enclave.

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