- La discussione pubblica iper razionalistica e polarizzata di questi giorni è in realtà un gigantesco rito apotropaico, un’irruzione di pensiero magico, pre politico e pre razionale.
- Gran parte della nostra opinione pubblica è in preda a una sorta di “realismo politico intuitivo": la guerra in Ucraina è effetto di interessi, squilibri mentali, errori strategici.
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Gli esseri umani hanno bisogno di sicurezze, e si accontentano di essere sicuri anche di quel che si rivelerà falso. Ma è una reazione errata perché, nonostante le apparenze, è contraria al metodo scientifico, sia nelle scienze naturali sia in quelle sociali.
La discussione pubblica iper razionalistica e polarizzata di questi giorni è in realtà un gigantesco rito apotropaico, un’irruzione di pensiero magico, pre politico e pre razionale, simile a quelli che nel sud del nostro paese lenivano o rappresentavano l’angoscia e l’emarginazione sociale dei ceti più poveri, almeno secondo Ernesto De Martino.
Come la pandemia, la guerra a pochi chilometri da casa ci spaventa e cerchiamo sicurezze, che non riusciamo più a trovarle nelle vecchie narrazioni.
Da tempo la religione non serve più a dare senso alla nostra vita privata e sociale, o almeno non per la maggior parte di noi: non ci sono più partiti esplicitamente cattolici, se non quando si discutono questioni bioetiche o diritti civili, e i pronunciamenti del papa sulla guerra non hanno l’eco di quelli dei partecipanti ai talk show.
Lo stesso vale per le ideologie tradizionali: le opinioni dei partigiani dell’Anpi vengono sconfessate da gran parte del loro mondo di riferimento.
La sicurezza ansiosa che ancora riusciamo a garantirci proviene in gran parte da discipline fattuali – durante la pandemia dalla virologia, prima e dopo le crisi finanziarie, dall’economia. Adesso dovrebbe venire dalle relazioni internazionali, e nella fattispecie dalle teorie realiste delle relazioni internazionali.
Presunta neutralità
Si tratta di una reazione comprensibile, ma pericolosa: ci fa perdere lucidità morale e non ci fa guadagnare conoscenza fattuale, sposta tutto sul piano di presunti fatti, silenziando la discussione politica genuina e permettendo a chi sostiene idee morali ovviamente sbagliate di introdurle surrettiziamente, senza contraddittorio, ammantandosi di presunta neutralità e trincerandosi dietro uno sguardo che si vorrebbe “scientifico” e disincantato.
Si parla di “leggi ferree”, che chiarirebbero il comportamento di Putin e renderebbero inevitabile la resa dell’Ucraina, si stabiliscono presunte catene causali che portano direttamente dagli eventuali errori della Nato all’invasione.
Gran parte della nostra opinione pubblica è in preda a una sorta di “realismo politico intuitivo": la guerra in Ucraina è effetto di interessi, squilibri mentali, errori strategici.
Qualsiasi influenza di idee morali e politica è esclusa. Putin è pazzo, non semplicemente animato da una visione morale e politica sbagliata, da contestare con parole e azioni.
Si guarda alle scienze sociali con un atteggiamento rozzamente baconiano: vogliamo leggi che valgono sempre, regolarità assolute, alternative nette, e le vogliamo per dominare una realtà che ci sembra minacciosa e riottosa. Come durante la pandemia volevamo la sicurezza e rifuggivamo dalle percentuali, dalle probabilità.
È il gesto tipico del negazionista: nega i pronunciamenti della scienza ufficiale – sui vaccini, sulle radici umane del cambiamento climatico – ma lo fa diventando più scientista dello scienziato, cioè appellandosi ai margini di dubbio, al fatto che le previsioni non sono mai al 100 per cento, ma ci sono scenari alternativi (anche se molto poco probabili), e pretendendo solo risultati necessari, veri in ogni mondo possibile.
Dunque, ritornando alle relazioni internazionali: era sicuro che Putin avrebbe invaso l’Ucraina, e l’avrebbe fatto proprio quel giorno. L’avevo previsto. Proprio come Nostradamus, un Nostradamus che non invoca gli astri, ma le leggi ferree della sua visione del mondo.
Pacifismo e autodeterminazione
Ci sono due minoranze dell’opinione pubblica che contrappongono a tutto questo visioni etiche: un pacifismo simbolico e una visione del valore morale dell’autodeterminazione e del diritto all’autodifesa dei popoli sovrani democratici.
Ma, paradossalmente, pure molti di loro presto scivolano sul terreno dei (presunti) fatti, delle catene causali, delle regolarità e delle leggi – diventano dei pacifisti realisti, per così dire: fornire armi porterebbe a una pericolosa escalation, e se continuiamo così, Putin userà la bomba atomica, oppure: ci sono comportamenti della Nato, degli Usa, dell’Europa … (sostituite l’entità politica che preferite) paragonabili a quelli di Putin, o ci sono aggrediti (gli yemeniti, gli afgani, i curdi) a cui non abbiamo dato armi.
Come ha scritto Donatella Di Cesare, «chi si accontenta di ripetere il refrain “c’è un aggressore e un aggredito”, ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra».
E se invece che alle cause guardassimo alle ragioni? E se invece che semplicemente menzionare eventuali effetti, dicessimo chiaramente quali effetti probabili (magari più probabili: preoccuparsi degli effetti degli insulti su Putin, come fa Luigi Ferrajoli, forse non è necessario) hanno valore per noi o no?
C’è una specie di ossessione per le cause e i fatti: bisogna trovare la causa di tutto, della presunta pazzia di Putin, come del carisma istrionico di Zelensky. La teoria del complotto ormai si traveste da pensiero scientifico, da considerazione razionale e disincantata dei fatti.
E da determinismo rozzo: Putin non poteva non fare quel che ha fatto, se noi rispondiamo aiutando gli ucraini non potrà che alzare la posta. Un determinismo a cui si dovrebbe rispondere: se Putin non poteva non fare quel che ha fatto, se non poteva fare altrimenti, neppure noi lo possiamo.
Quindi, perché ci consigli di fare altrimenti? È inevitabile. Ci sarà la terza guerra mondiale. Smettiamo di parlare. Cerchiamoci un bunker.
Bisogno di sicurezze
Questa reazione è comprensibile: gli esseri umani hanno bisogno di sicurezze, e si accontentano di essere sicuri anche di quel che si rivelerà falso.
Ma è una reazione errata perché, nonostante le apparenze, è contraria al metodo scientifico, sia nelle scienze naturali sia in quelle sociali. Da almeno un paio di secoli gli scienziati sanno e ci dicono che i loro sforzi non producono leggi ferree o fatti inoppugnabili, ma generalizzazioni probabili e tendenze, e che ci possono essere eccezioni.
E ci dicono pure che i risultati della scienza sono il punto di partenza, non l’unica base necessaria delle decisioni politiche. Lo scienziato (naturale e sociale) può dire che cosa è più probabile. Ma è il politico democratico, e i suoi elettori, che debbono scegliere quali rischi correre.
Un altro errore è pensare che qualsiasi decisione etico-politica non possa che essere arbitraria, sentimentale, non discutibile.
E quest’idea che le deliberazioni etiche o politiche siano in fondo solo espressione di umori irrazionali o prese di posizioni arbitrarie è anche la molla che porta a rincorrere descrizioni suppostamente scientifiche ed eticamente neutrali.
Interpellare l’esperto, in sé, non è sbagliato, quando si sia di fronte a questioni specialistiche (come il cambiamento climatico o l’efficacia dei vaccini), questioni che richiedono conoscenze che vanno al di là di quelle del comune cittadino.
E si può anche sostenere che fidarsi del giudizio degli esperti, senza interrogarsi ulteriormente, sia giustificato e legittimo in certi casi: uno degli errori della pandemia era cercare di sostituire il nostro giudizio a quello dei medici.
Ed è ovvio che mettere sullo stesso piano uno studioso di storia ucraina o di relazioni internazionali, un sociologo del terrorismo e un fisico teorico quando si parla del conflitto è un’operazione metodologicamente impropria.
Ma bisognerebbe anche evitare che ogni scelta politica ed etica diventi un’interrogazione dei vati (con un inconscio rimpianto delle omelie dei preti e del segretario che dava la linea) e assumersi invece le responsabilità proprie della cittadinanza.
Per decidere se crediamo che l’autodeterminazione dei popoli sia un valore da tutelare e se riteniamo che il nostro Paese dovrebbe difendere questo valore non dobbiamo consultare esperti. Dobbiamo riflettere e pensare, discutendo da pari a pari con i nostri concittadini e con i nostri rappresentanti.
Dovremmo evitare, insomma, due atteggiamenti opposti ed egualmente errati: pendere dalle labbra dell’esperto o perdere tempo a indagare la credibilità di chiunque si autoproclami tale. In entrambi i casi, stiamo abdicando ai nostri doveri di cittadini democratici.
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