Belgrado e Pristina hanno concordato la proposta dell’Ue per normalizzare le relazioni tra i due stati. È il primo passo verso un accordo definitivo, ma la strada per contendere la regione alle influenze di Mosca e Pechino è ancora piena di ostacoli
- Dopo mesi di tensioni, i leader di Serbia e Kosovo ritornano al tavolo delle trattative e pur da posizioni distanti, concordano su un primo testo per normalizzare le relazioni tra i due stati.
- Si tratta di una tappa intermedia che spiana la strada verso un accordo definitivo per scongiurare così nuove turbolenze nei Balcani.
- Gli anni di stallo e la logica securitaria che sottende al ritorno dell’Europa nella regione mostrano però i limiti dell’offensiva diplomatica dell’Ue.
Mesi di attriti, accuse reciproche, tensione alle stelle. Poi il sostegno a denti stretti sulla proposta dell’Ue di un accordo per normalizzare i rapporti tra Serbia e Kosovo.
Si è concluso così l’incontro convocato dal capo della diplomazia europea, Josep Borrell, con il presidente serbo, Aleksandar Vucic e il premier del Kosovo, Albin Kurti.
Un esito non scontato che ha il merito di far ripartire la locomotiva dell’integrazione europea dei Balcani occidentali, a cominciare dal suo anello più debole, quel Kosovo uscito indipendente dalle guerre degli anni Novanta e mai riconosciuto dalla Serbia.
«Non c’è un piano B alla proposta dell’Ue, perché questo è già il piano B». Nei giorni che hanno preceduto l’incontro, fonti diplomatiche spiegavano così la portata dell’intesa raggiunta a Bruxelles.
Una tappa intermedia che possa spianare la strada verso un accordo definitivo tra i due paesi e scongiurare così nuove turbolenze nei Balcani, alimentate dal conflitto in Ucraina e dall’azione destabilizzante di Mosca, che non a caso minaccia di far deragliare il processo.
Riconoscimento di fatto
L’intesa, raggiunta sulla base della proposta presentata a settembre da Francia e Germania, con l’appoggio di Ue e Stati Uniti, prevede una serie di elementi che rappresentano un riconoscimento de facto del Kosovo.
Pristina e Belgrado hanno accettato la reciproca legittimità di «documenti e simboli nazionali, inclusi passaporti, diplomi, targhe e timbri doganali».
Belgrado, inoltre, «non si opporrà all'adesione del Kosovo ad alcuna organizzazione internazionale». Un punto rilevante quest’ultimo se si considera che finora la Serbia ha fatto affidamento su Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, per impedire l’adesione di Pristina alle Nazioni unite.
D’altro canto, Belgrado ha incassato l’impegno di Pristina a «garantire un livello di adeguata autogestione della comunità serba in Kosovo» e ad «attuare tutti gli accordi di dialogo passati», riferimento quest’ultimo all’istituzione di un regime speciale per la minoranza serba in Kosovo già concordato negli accordi di Bruxelles del 2013 e rimasto finora lettera morta a causa dell’opposizione di Kurti che ritiene tale regime contrario al dettato costituzionale.
Un elemento chiave dell’intesa poi è l’impegno a creare una commissione mista, presieduta dall’Ue, per monitorare l’attuazione dell’intesa. Finora, osservano da Bruxelles, più della metà degli obblighi assunti nei precedenti accordi non sono stati implementati.
Le insidie
Fin qui il bicchiere mezzo pieno. Perché la parte difficile deve ancora venire. Questa parte prende il nome di protocollo di attuazione, un documento che dà sostanza alla proposta concordata da Serbia e Kosovo. Ed è qui che si annidano le insidie del negoziato.
«Il processo di Bruxelles può non piacere a quanti si aspettano un risultato soddisfacente nell’immediato» aveva detto sibillino l’ambasciatore americano in Serbia, Christopher Hill, alla vigilia dell’incontro. Lo stesso Borrell ha ammesso che è necessario lavorare ancora sull’intesa per definire misure specifiche e modalità di attuazione. E in questo le posizioni di Vucic e Kurti non potrebbero essere più distanti.
La ripresa del dialogo dopo anni di stallo, poi, rischia di creare delle forzature nel processo di riconciliazione tra i due Paesi. Prova ne è la forte opposizione manifestata nel dibattito pubblico in Serbia e Kosovo alla proposta dell’Ue.
E del resto l’intensificazione dell’attività diplomatica di Bruxelles ha prodotto esiti controversi nell’intera regione.
Il caso più indicativo è quello della Macedonia del Nord, rimasta in sala d’attesa dal 2004, anno in cui Skopje aveva presentato la domanda di adesione all’Ue.
Un iter bloccato dai veti di Grecia, Francia e in ultimo Bulgaria, e rimessosi in moto solo nel luglio dello scorso anno, quando Bruxelles ha avviato i negoziati di adesione.
Per farlo, l’Ue ha ceduto al ricatto nazionalista di Sofia che ha imposto la risoluzione di una disputa identitaria tra i due paesi come condizione per l’adesione di Skopje all’Unione.
Una decisione che ha rinfocolato la frangia nazionalista macedone filo-russa e filo-orbaniana che rischia di ritornare al governo dopo anni di assenza. Ed è un caso, quello macedone, a cui tutti i paesi della regione guardano con sconforto, come racchiudesse le contraddizioni di un’Europa che di fatto ha voltato le spalle ai Balcani anni or sono.
Salvo poi ricordarsene quando si tratta di lotta all’immigrazione clandestina e alla minaccia terroristica. Una logica securitaria che sottende in particolare al ritorno nei Balcani dell’Italia e che mostra ancora una volta i limiti dell’offensiva diplomatica dell’Europa nella regione.
Con il rischio di mancare l’obiettivo principale: strappare i Balcani all’influenza di Mosca e Pechino e riportarli sui binari dell’Ue.
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