Che cos’è l’«ordine»? La parola evoca regolarità, prevedibilità e nettezza, tutte caratteristiche che stimolano quel senso di sicurezza cui molti aspirano come naturale reazione alle asperità della vita quotidiana. L’appello all’ordine è un attrezzo spesso usato in politica perché incontra il favore del pubblico.

Certi movimenti hanno addirittura adottato la tattica di seminare scientemente caos e violenza, o di acutizzare il caos e la violenza esistenti nella società, per potersi poi ergere a paladini del ristabilimento dell’ordine: è il caso, tipicamente, dei movimenti fascisti in Italia e in Germania nel periodo fra le due guerre nel secolo scorso

Il termidoro francese e il termidoro staliniano, pur avendo cause ben più complesse, sono stati comunque facilitati dal bisogno popolare di un ritorno all’ordine dopo anni di burrascosa tempesta rivoluzionaria. La stessa cosa è valsa per l’ascesa di Deng Xiaoping dopo il brutale caos della cosiddetta «rivoluzione culturale».

La Treccani conferma che le locuzioni «ordine sociale» e «ordine pubblico» rimandano, in positivo, all’assenza di conflitti nella società; e proprio su questa sostanziale identificazione con la pace fanno leva i messaggi dei leader politici che promettono ordine – sia esso locale, nazionale, mondiale.

Tuttavia, se per ordine intendiamo anche regolarità e prevedibilità, dobbiamo riconoscere che questa identificazione è, in termini storici, una novità recente. Nei primi millenni seguiti alla rivoluzione produttiva dell’agricoltura e dell’allevamento, a essere regolare e prevedibile era piuttosto la guerra, che scandiva il tempo della vita umana.

Il dio della guerra

Ne troviamo traccia nell’Antico Testamento, dove l’Ecclesiaste, «figlio di David, re di Gerusalemme», ricorda che «per ogni cosa c’è il suo momento (...)c’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire (...)un tempo per la guerra e un tempo per la pace» (Qoelet 3,1-8).

Nell’Arabia preislamica, era proibito combattere nei «mesi sacri», dedicati al raccolto, agli scambi commerciali e ai pellegrinaggi, proibizione poi istituzionalizzata nel calendario musulmano. Gli antichi greci, più bellicosi, non prevedevano periodi di sospensione dei conflitti, ma tutelavano la sicurezza dei pellegrini in cammino verso Olimpia per partecipare o assistere ai giochi sacri, qualora attraversassero territori in guerra (da cui il mito della tregua olimpica).

Lo storico Michel Dousse ricorda che la competizione tra gli dei delle diverse tribù si decideva, essenzialmente, in guerra: «Il dio che si mostrava più efficace, più forte, si vedeva accreditato di un sovrappiù di realtà»; ed era soprattutto «in situazioni di estrema violenza che il dio era messo alla prova e doveva dimostrare la propria realtà».

Ogni religione aveva il suo dio della guerra, e talvolta più di uno: nella civiltà yoruba (moderno Benin) ce n’erano almeno tre; tre, forse quattro, nella civiltà azteca; più di una decina in quella egizia e così via. Yahweh, il Dio dell’Antico Testamento, è spesso chiamato «Signore degli eserciti» (Yahweh sabaoth), e nell’Esodo (15,3) è definito «prode in guerra»; i suoi dettati non riguardano solo le norme di comportamento e alimentazione, ma anche i conflitti: quando ordina la conquista della Cananea, raccomanda di massacrare tutti i suoi abitanti, anzi, per buona misura, di non lasciare in vita «alcun essere che respiri» (Deuteronomio, 20,16).

Nelle diverse culture

Nel corso dei secoli di storia delle società umane, la guerra è sempre stata la regola e la pace un’eccezione. La cosiddetta pax romana (I e II secolo della nostra era) fu tutt’altro che un’epoca di pace: dopo l’assassinio di Nerone (68 d.C.), Tacito descrive l’inizio di un periodo di «atroci battaglie, discordie di parti, crudeltà nella stessa pace».

Anche nelle province dell’Impero la guerra non cessò mai, come provano le rivolte in Palestina (fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e all’espulsione degli ebrei dalla città nel 135), e gli interminabili conflitti di frontiera, sul Reno, sul Danubio (contro i daci) e soprattutto sull’Eufrate (contro i parti).

Ali Parchami sottolinea che, all’epoca, «pax e bellum (guerra) erano inseparabili e che pax non rappresentava un’era di pace ininterrotta»; e fa notare che l’Ara pacis, a Roma, era stata eretta proprio in mezzo al Campo di Marte, dio della guerra (in onore di Augusto, che aveva «pacificato» la Spagna). Insomma, conclude Parchami, il concetto di pax serviva da giustificazione ideologica a una politica egemonica, come, molti secoli dopo, la pax britannica e la pax americana.

Un’ideologia che, come tutte le ideologie, era credibile perché trovava supporto in un aspetto della realtà difficilmente contestabile: all’interno dello spazio geografico «pacificato» da Roma era possibile godere di prosperità, certezza giuridica e prestigio sconosciuti a coloro che ne vivevano al di fuori.

Non era la pace, certo, ma era, in un certo senso, l’ordine, almeno un ordine relativo se paragonato al disordine «primitivo» dei territori fuori dal controllo di Roma; ma un ordine ottenuto grazie alla sottomissione degli altri di fronte alla schiacciante superiorità politica, economica e militare della potenza egemone.

Ovviamente non ha senso parlare di «ordine mondiale» a questo stadio; tuttavia, gli imperi in grado di stabilire il loro dominio su vaste porzioni di territorio si concepivano come padroni dell’intero mondo. Questo vale per l’antico Egitto «che comanda su tutta la Terra unita in un solo insieme» (stele dell’epoca di Ramses III), per Roma imperium sine fine, per la Persia governata dal re dei re (titolo ereditato dall’India antica, attraverso la mediazione degli assiri e dei babilonesi), e per le dinastie cinesi che reggevano «tutto ciò che è sotto il cielo».

Tantomeno ha senso parlare di un ordine capace di assicurare la pace intesa come assenza di conflitti (o che, addirittura, ne sia sinonimo). In tutti questi casi l’ordine era garantito dai soliti ingredienti, che ritroviamo in Roma: superiorità economica, abilità politica, raffinatezza culturale, conoscenza e forza militare. La guerra, si può dire, era consustanziale all’ordine.

L’associazione di universalità e di pace era piuttosto il contenuto di quelle religioni che recavano un messaggio di salvezza a tutta l’umanità (a differenza degli dei tribali), e che identificavano la pace con quella salvezza. La scuola buddista Mahayana (I secolo a.C.) insegnava che tutti gli esseri viventi possono aspirare a diventare bodhisattva (illuminati) e che tutti sono ugualmente meritevoli di karuṇā (letteralmente «compassione», o vita senza ingiurie e senza sofferenze).

Universalismo cristiano

Anche il cristianesimo, nato da una costola universalista dell’ebraismo, prometteva la salvezza, e dunque la pace, per tutti come effetto della venuta del Messia (a condizione, beninteso, di accettarne la venuta). Agostino di Ippona illustrò l’opposizione tra la città terrena, che aspira alla pace e all’ordine, e la città di Dio, che è la pace e l’ordine.

La tranquillitas ordinis, definita pax omnium rerum (la pace di tutte le cose) può dunque essere raggiunta solo rispettando e adeguandosi all’ordine voluto da Dio. Ovviamente, se la salvezza, condizione della pace, può e deve essere accessibile a tutti gli esseri umani «fino agli estremi confini della Terra» (Atti degli Apostoli, 1,8), si tratta comunque di una salvezza individuale, che permette l’accesso alla beatitudine eterna; non comporta un progetto politico temporale, e anzi ne è alternativa.

Nondimeno il cristiano, che ha il dovere di amare il prossimo come sé stesso, deve operare non solo in vista della propria salvezza, ma in vista della salvezza di tutti gli esseri umani, a costo di costringerli con la forza, se necessario con l’aiuto del potere politico: per Agostino, «ubi terror, ibi salus (...) O sævitia misericors!» (dove c’è il terrore, là c’è la salvezza (...) O crudeltà misericordiosa!).

Il terrore e la violenza non avevano lo scopo di punire chi non fosse cristiano (o fosse un eretico – Agostino contò fino a 84 eresie), come fu il caso del cristianesimo dei secoli successivi, ma di salvarlo, e di salvarlo per l’eternità: un atto di bontà, quindi, e non di crudeltà.

Quale che fosse lo scopo, comunque, anche in questo caso la condizione per l’accesso alla pace era l’accettazione dell’ordine, con le buone o con le cattive. L’ordine e la guerra erano ancora consustanziali.


Il testo in questa pagina è tratto dal libro di Manlio Graziano Disordine mondiale. Perché viviamo in un’epoca di crescente caos, edito da Mondadori.

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